I DISERTORI ITALIANI DELLA GRANDE GUERRA

Durante la guerra del 15-18 ci furono 400000 denunce per reati commessi, tra cui 4000 condanne di morte, di cui 729 eseguite. Tutto ciò senza contare le decimazioni che peraltro erano state autorizzate, in casi estremi, da una circolare del 1915 emessa dal Comando Supremo, a firma del Generale Luigi Cadorna. La decimazione, retaggio di epoca romana, di cui solo l’Italia tra tutti i Paesi belligeranti fece uso, serviva a reprimere atti di ammutinamento: i militari venivano estratti a sorte fra gli indiziati e fatti passare per le armi, si veniva fucilati senza alcuna prova di colpevolezza diretta. Ma cosa spingeva i soldati a disertare? La diserzione prevedeva l’abbandono ingiustificato del corpo in cui si presta servizio militare, si può realizzare sia abbandonando senza autorizzazione il reparto di appartenenza sia non facendovi rientro al termine di una regolare assenza per licenza. Si divide in: “di fronte al nemico”, quindi l’abbandono del reparto al fine di passare al nemico e venir fatto prigioniero e “in presenza del nemico”, quando il fine sia diverso da quello di passare al nemico.

I soldati disertavano per diversi motivi, per esempio, se erano in licenza (breve periodo di tempo lontano dal fronte) decidevano di non tornare più a fare la guerra e scappare. Un altro motivo è il rifiuto all’attacco, infatti molti soldati, ritenendo che un assalto alla trincea nemica fosse brutale e un inutile spreco di sangue, spesso disobbedirono agli ordini o addirittura saltavano fuori dalla trincea alleata e correvano verso quella nemica, sperando di essere fatti prigionieri, in casi più isolati alcuni militari, spinti dalla follia, si suicidarono. “[…] l’aspirante Perini si rizzò, in mezzo ai suoi soldati, e prese la fuga. Drizzatosi di scatto, quasi una granata lo avesse scavato dalle viscere della terra, voltò le spalle al suo plotone e si precipitò indietro. Giovanissimo e malaticcio, egli non aveva mai preso parte a nessun combattimento. Il maggiore lo vide prima di me, quando ci passò vicino, e me lo indicò. Senza elmetto, la faccia stravolta, l’aspirante urlava: – Hurrà! Hurrà! – È probabile che, nella furia del panico, gli austriaci fossero penetrati talmente dentro di lui, che egli gridasse per loro. – Tiri una fucilata a quel vigliacco! – mi gridò il maggiore. Io sentivo il maggiore, ma guardavo l’aspirante, senza muovermi. Neppure il maggiore si muoveva. Egli continuava a gridarmi: – Tiri una fucilata a quel vigliacco!” (Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano).

La diserzione però fu anche “camuffata” dai soldati. Infatti furono molto frequenti le automutilazioni. I soldati si auto infliggevano ferite per essere rispediti a casa. Per citare alcuni orribili avvenimenti alcuni si bucavano i timpani con i chiodi, si iniettavano benzina o si causavano ferite d’arma da fuoco ad arti (in Inghilterra posizionavano l’elmetto sul piede e, alzandolo in modo che si vedesse dalle trincee nemiche, speravano in una fucilata tedesca, credendo si trattasse di una testa umana anziché di un piede). Queste terribili azioni ci fanno riflettere sulla brutalità della guerra e su come gli attacchi fossero massacri inutili, compiuti da poveri esseri umani trovatosi con un elmetto in testa e un fucile in mano in una trincea, a combattere una guerra che neanche loro volevano. Nel 1919 il governo italiano promulgò la legge numero 935, in favore a tutti i caduti a causa delle fucilazioni per diserzione, una magrissima consolazione per le famiglie. 

Di Matteo Piroli