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“Pseudolus”, commedia plautina. Recensione di Grazia Buttafuoco

L’opera plautina prende avvio con un discorso tra Pseudolo, uno schiavo, protagonista
della commedia e Calidoro, un giovane ingenuo, tormentato dall’amore per una donna,
Fenicia. L’angustiato amore tra i due giovani, che costituisce la base della trama
dell’opera, è, però, impossibilitato da Ballione, il lenone, il cosiddetto sfruttatore di
prostitute che, a causa delle sua smodata avarizia, vende la giovane Fenicia ad uno
straniero, un soldato macedone di nome Polimacheroplagide per venti mine. Tuttavia, per
Calidoro c’è ancora una piccola speranza: l’affare tra i due uomini non è ancora concluso,
infatti, il soldato di Sicione, dovrà ancora consegnare le ultime cinque mine, entro la festa
di Dioniso del giorno successivo, insieme alla sua corrispettiva contromarca, per
completare l’affare. In un primo momento, dopo aver superato lo sconforto iniziale,
Pseudolo e Calidoro si recano presso la casa di Ballione, per cercare di convincere il
lenone ad annullare il suo accordo con Polimacheroplagide. Inizialmente, il “leno” non
vuole nemmeno ascoltare gli uomini, ma, in un secondo momento, decide di fermarsi un
attimo per capire le loro intenzioni e vedere se, anche questa volta, potrà guadagnare altro
denaro. Il giovane e lo schiavo supplicano il lenone di non vendere Fenicia, affermando
che, nel giro di pochi giorni, riusciranno a procurarsi le venti mine d’argento. Tuttavia, il
losco figuro dello sfruttatore di prostitute non si lascia impietosire dalle suppliche del
giovane Calidoro, dichiarando che la donna non è più in vendita, perché ormai è già stata
venduta. Pseudolo però non si arrende e decide di “assediare” ed “espugnare” la fortezza
del lenone, chiedendo a Calidoro di portare da lui un uomo istruito, per attuare il loro
piano. Nel frattempo, Simone, il padre di Calidoro, e il vecchio Callifone sono venuti a
conoscenza da alcune voci, che Pseudolo sta cercando un modo per rubare allo stesso
Simone venti mine per darle al figlio di quest’ultimo, al fine di riscattare la libertà della
giovane flautista di cui è innamorato. Lo schiavo conferma tutto e, alla fine, viene persino
ai patti con Simone: se riuscirà a sottrarre Fenicia dalle grinfie del lenone, lui,
volontariamente, dovrà cedere le venti mine. Nel secondo atto, viene introdotto un nuovo
personaggio: Arpace, schiavo del soldato macedone che, dopo un giorno e mezzo di
viaggio, giunge alla porta di casa di Ballione, chiedendo di lui e portando le restanti cinque
mine. Pseudolo, appostato davanti alla porta, coglie l’occasione al volo: finge di essere lo
schiavo del lenone e chiede ad Arpace di dare a lui le restanti cinque mine, visto che, al
momento, il padrone non si trova in casa. Strategicamente, Arpace si rifiuta, affermando
che consegnerà il denaro solo e soltanto a Ballione in persona. Tuttavia, affida una lettera
di Polimacheroplagide a Siro (nome con cui si fa chiamare Pseudolo), chiedendo allo
schiavo di richiamarlo nella locanda vicino alla casa, quando il lenone farà ritorno.
Successivamente all’uscita in scena di Arpace, Calidoro fa ritorno insieme a Carino. Dopo
aver fatto la conoscenza del giovane, Pseudolo gli chiede di condurre da lui uno schiavo
scaltro e furbo che, vestito con gli stessi indumenti di Arpace e con cinque mine, prestate
dallo stesso Carino, riuscirà ad imbrogliare Ballione. Nel mentre, dopo che il lenone fa

ritorno insieme ad un cuoco, suo ultimo acquisto, Scimmia, lo schiavo raccomandato da
Carino, si presenta alla sua porta con la lettera che Arpace aveva precedentemente
consegnato a Pseudolo e le cinque mine, sollecitando l’altro uomo a consegnargli Fenicia.
Ballione cade nella trappola e consegna la donna, permettendo, finalmente, grazie al piano
dell’intelligente schiavo, la storia d’amore tra la flautista e Calidoro. In un secondo
momento, Arpace, si reca nella casa del lenone per portare la donna al suo padrone.
Ballione insieme a Simone, che nel frattempo si era recato dell’amico, iniziano a prendere
in giro lo schiavo, pensando si tratti di un piano architettato da Pseudolo, per poi venire a
conoscenza del vero: il giovane che, qualche momento prima, aveva portato con sé la
donna non era altro che un impostore commissionato dallo stesso Pseudolo che aveva
vinto, era riuscito ad imbrogliare tutti. Alla fine, anche lo stesso padrone, Simone,
riconosce il grande ingegno del suo schiavo e decide di mettere da parte la sua avarizia per
rispettare il loro patto, donando le venti mine d’argento all’uomo.

Tra i vari personaggi della vicenda spicca sicuramente Pseudolo,

protagonista dell’opera, che incarna alla perfezione la figura del servus callidus (lo schiavo
astuto). Egli si mette al completo servizio del padrone, architettando imbrogli e
stratagemmi, riuscendo a risolvere con prontezza le situazioni più difficili, per permettere
la storia d’amore tra Fenicia e Calidoro. Certamente quello di Pseudolo è un personaggio
ingegnoso, dotato di una grande capacità oratoria. Molto spesso utilizza un linguaggio
sprezzante e il suo modo di rivolgersi, anche con i suoi padroni o con qualcuno più
anziano, per esempio con Simone e Callifone, appare abbastanza confidenziale come se il
personaggio non si curasse della sua condizione di schiavo. Calidoro è il coprotagonista su
cui, appunto, si basa la vicenda dell’intreccio amoroso. Il giovane si mostra come un
personaggio ingenuo, rifacendosi ancora una volta ai personaggi stereotipati delle
commedie plautine, perdutamente innamorato di Fenicia, ma senza un soldo (questo
perché secondo la legge romana l’intero patrimonio appartiene al pater familias). Dunque,
il giovane è estremamente insicuro, spaventato e viene presentato come una persona
sicuramente per bene (infatti, quando Ballione suggerisce al ragazzo di dedicarsi ad attività
come l’usura, alla vendita illegale di olive o di derubare il padre per ottenere le venti mine,
il giovane si tira subito indietro, poiché troppo onesto per compiere tali azioni). Infine, è
importante evidenziare il suo rapporto con Pseudolo, senza il quale risulterebbe incapace
di fronteggiare la situazione. Ballione è l’antagonista della storia, il lenone, un losco
figuro, un miserabile che prospera commerciando ragazze. Il personaggio è caratterizzato
da una certa superbia e dalla quasi ossessione per i beni materiali, per il denaro, per le
ricchezze e il lusso. Un personaggio subdolo e senza scrupoli, riconosce persino la sua
natura malvagia, accettando quasi con fierezza una serie di attributi vili come svergognato,
scellerato e traditore (primo atto, durante la discussione tra lui, Calidoro e Pseudolo).
Simone, il padre di Calidoro, è un persona avara a tal punto da non dare al figlio nemmeno
il denaro per liberare Fenicia. Nella sua figura ritroviamo molte caratteristiche del senex,
una parodia del pater familias: avaro, ricco e capace di tenere il figlio senza un soldo. Un
altro personaggio fondamentale per lo sviluppo degli eventi è Fenicia, nonostante non

appaia mai nella storia. E’ la povera ragazza prigioniera di Ballione venduta ad un soldato
macedone. Arpace è lo schiavo di Polimacheroplagide, il soldato che versa quindici mine
per riscuotere Fenicia. Un servo sicuramente fedele nei confronti del padrone, dedito a
portare a termine il suo compito.Scimmia è un personaggio molto astuto e scaltro, in grado
di aggirare la situazione a suo piacimento. La sua furbizia, infatti, permette di portare a
termine l’imbroglio di Pseudolo: prontamente, quando Ballione chiede il nome del soldato
macedone (di cui non era a conoscenza), egli risponde che, per verificare se effettivamente
la persona che si trova davanti è il lenone, dovrà essere lui, Ballione, a pronunciare il nome
del soldato con cui aveva stretto un accordo. Carino è il giovane, amico di Calidoro, che
presta cinque mine al suo schiavo Scimmia. Un altro personaggio tipico delle commedie
plautine è il cuoco, ingaggiato dal lenone per il suo compleanno. Il cuoco si dimostra
essere molto superbo, infatti, afferma di costare molto più degli altri cuochi e di cucinare
prelibatezze tali che gli uomini una volta assaggiati, saranno costretti a mangiare le loro
stesse dita e l’odore dei cibi da lui cucinati sono così intensi da giungere fino in cielo, dove
Giove cena tutte le sere con quell’odore. Callifone, amico di Simone, un anziano
incuriosito dalla persona di Pseudolo. Questa commedia, essendo una palliata, quindi di
ispirazione greca, presenta un ambiente tipicamente greco. L’ambientazione della storia è
Atene, in particolare nelle vie delle case di Simone e Ballione.Elemento caratteristico delle
commedie di Plauto è la contaminatio. Infatti, una commedia tradotta dal greco al latino,
ma completamente greca sarebbe risultata lontana dal gusto della popolazione romana,
come, invece, avrebbe uno scarso risultato anche una commedia ambientata nel mondo
romano, perché, basandosi sulla ricerca del ridicolo, della risata, avrebbe potuto offendere
la morale romana. Per questo si preferiva avere una commedia di ambientazione greca,
come in questo caso Atene, con alcune influenze romane. Il linguaggio plautino è
sfavillante pieno di parolacce, doppi sensi, metafore, allitterazioni, giochi di parole,
nomignoli, per suscitare il riso del pubblico; molto spesso, alcuni discorsi, nonostante nella
scena vi siano più personaggi, sono ascoltati o indirizzati solo ad una persona specifica,
come se gli altri non ci fossero. Inoltre, un’altra caratteristica è quella del metateatro, cioè
il teatro dentro il teatro, quando i personaggi, per coinvolgere il pubblico, si rivolgono
direttamente ad essi, rompendo la quarta parete. Il pubblico, quindi, smette di
immedesimarsi nella scena, perché la loro attenzione è richiamata da alcuni personaggi
della vicenda, che sono soliti ad affermare, per esempio, che la commedia è già troppo
lunga per essere allungata ancora. La commedia mi è piaciuta e, in particolare, la lettura
risulta molto scorrevole e leggera, grazie al linguaggio comune e semplice utilizzato da
Plauto. Tuttavia, un’unica pecca potrebbe essere che la lettura di una commedia plautina
necessita una certa attenzione, poiché presenta numerosi intrecci.

Grazia Buttafuoco, III I