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Il lavoro in pandemia: intervista a una dottoressa di medicina generale

di Andrea Casu

In questo drammatico periodo di pandemia, abbiamo più volte visto i medici ospedalieri impegnati in prima linea e con molto sacrificio nella lotta al Covid-19 e nella cura eroica dei pazienti ricoverati. C’è però un’altra “prima linea”, meno evidente e forse meno valorizzata dai media, composta da quei medici più vicini alle famiglie: i medici di medicina generale, cioè i medici di base. Per questo motivo ho voluto intervistare la dottoressa Deborah Arceri, il mio medico di famiglia.

Nel primo periodo della pandemia, quali sono state le emergenze e i problemi che ha dovuto affrontare come medico di medicina generale?

Il primo periodo della pandemia è stato forse il più difficile: eravamo completamente ignari di quello che stava accadendo, c’era questa eco lontana dell’epidemia in Cina, ma noi non sapevamo proprio nulla di come si trasmetteva il virus e di come ci si poteva difendere. Soprattutto inizialmente, ha prevalso la paura, perché noi abbiamo continuato a visitare i pazienti fino all’ultimo secondo, fino a pochi minuti prima che si decidesse il lockdown. I problemi che abbiamo dovuto affrontare sono stati molti, prima di tutto la mancanza totale di strumenti di protezione: non avevamo nulla, perché nei nostri ambulatori normalmente le mascherine non c’erano, c’era giusto qualche mascherina chirurgica che usavamo per le medicazioni, nulla di più. I pazienti terrorizzati chiamavano noi per avere delle rassicurazioni e delle informazioni, ma anche noi ne avevamo molto poche.Perciò all’inizio ha prevalso un sentimento di confusione, perché noi ci eravamo esposti fino al giorno prima, visitando le persone a gola aperta, auscultando polmoni, e non capivamo bene quale fosse l’entità dell’epidemia, soprattutto a Roma, dove io lavoro. Quindi, i problemi principali sono stati, prima recuperare materiale per proteggerci e per continuare a fare il nostro lavoro e poi reperire informazioni attendibili per aiutare i pazienti a capire come muoversi.

Nel periodo successivo, dopo l’estate, i problemi e le esigenze dei suoi pazienti sono cambiati?

A Roma, nel primo periodo della pandemia, da marzo fino all’inizio dell’estate, i casi sono stati molto pochi e noi abbiamo avuto un’eco veramente lontana di quello che succedeva in Lombardia. Nel nostro studio c’erano solo poche decine di casi, anche se abbiamo tantissimi pazienti, per cui ci sembrava addirittura esagerato quello che vivevamo in quel momento. Però nel complesso eravamo molto concentrati tutti sul Covid. Successivamente, i problemi dei pazienti sono enormemente cambiati, o meglio sono tornati a essere quelli di sempre: i pazienti continuano a stare male per malattie diverse dal covid. Abbiamo, per esempio, pazienti oncologici, pazienti diabetici, o i neurologici gravi con malattie degenerative: tutti questi pazienti, purtroppo, soprattutto dopo l’estate, quando l’epidemia ha ripreso in maniera molto più evidente anche qui da noi, hanno sofferto per la chiusura degli ospedali e degli ambulatori, cioè per la mancanza di tutto quel sistema di protezione che garantiva la gestione dei pazienti cronici. In gran parte queste strutture sono state utilizzate per gestire la pandemia e quindi molti malati cronici si sono trovati a dover gestire le proprie malattie senza avere la rete di supporto offerta dai vari centri specialistici che se ne occupavano. Quindi, anche noi medici di famiglia, abbiamo dovuto gestire una serie di problemi pratici, tra cui, per esempio, la prescrizione di piani terapeutici per farmaci specifici e, in generale, capire in che modo aiutare le persone a gestire malattie croniche importanti. Insomma è diventata problematica la gestione della normalità e non della straordinarietà rappresentata dalla pandemia. Ora i medici di medicina generale si stanno impegnando anche nelle vaccinazioni.

Qual è l’atteggiamento dei pazienti nei confronti della campagna di vaccinazione e la momentanea sospensione dei vaccini Astra Zeneca ha influito su questo atteggiamento?

Il discorso è molto complesso. Inizialmente c’è stato un po’ di scetticismo, soprattutto per la velocità con la quale questi vaccini sono stati messi in commercio. Dietro la realizzazione di un vaccino o di qualsiasi protocollo di sperimentazione ci sono una serie di fasi, che non possono essere saltate. In circa otto mesi dall’inizio della pandemia, questi vaccini sono stati pronti per essere utilizzati e per questo abbiamo dovuto informarci noi per primi, per capire bene che tipo di vaccini erano stati realizzati, con che modalità, a chi erano destinati, in modo da poter riportare informazioni corrette e semplificate ai pazienti. Accanto allo scetticismo c’era anche la consapevolezza che alternative non ce ne erano e io personalmente spingevo i pazienti a comprendere che dovevamo tutti essere contenti perché la scienza, in poco tempo, aveva messo in campo un’arma incredibile. Quindi, inizialmente la difficoltà maggiore è stata far comprendere ai pazienti che cos’è un vaccino, come si usa e che tipo di vaccini erano questi disponibili per questa patologia. Successivamente purtroppo c’è stata la questione Astra Zeneca, che è stato un grosso problema comunicativo. Inizialmente in Italia sono stati riportati questi casi di persone decedute per fenomeni trombo-embolici, uno per in morte cardiaca improvvisa, una per embolia polmonare e uno per infarto intestinale. In realtà, la segnalazione originaria del probabile incremento di fenomeni trombotici per chi aveva ricevuto il vaccino Astra Zeneca, riguardava pochissimi casi in Svezia e in Germania di donne molto giovani, che avevano presentato una particolarissima e molto rara forma di trombosi. Da lì è partita questa segnalazione. I mezzi di informazione, invece di specificare quale era il problema originario, hanno messo nel calderone anche tutti gli altri decessi che probabilmente non erano legati alla somministrazione del vaccino, ma semplicemente al fatto che, vaccinando un grande numero di persone, quegli eventi che naturalmente si sarebbero verificati, si manifestavano a ridosso di una vaccinazione. Questa è stata una informazione che definirei terroristica. Ho letto titoli del tipo “Ti fideresti di farti vaccinare con questo piuttosto che con quest’altro vaccino?”. Questa la trovo una informazione molto scorretta. Non si può rincorrere un click in più sui social network in un momento come questo, in cui serve che le persone siano informate nella maniera migliore possibile, perché possano prendere decisioni utili per la loro salute ma anche per la salute di tutti. Perché, vaccinarsi o non vaccinarsi, non è solo una scelta individuale, ma è una scelta collettiva. La decisione di ciascuno di noi, a partire dagli operatori sanitari, ricade sulla vita di tutti gli altri. Le maggiori conseguenze legate a questa vicenda, si sono viste nei giorni successivi a queste notizie, quando noi avevamo programmato delle vaccinazioni, con tutte le difficoltà logistiche del caso, e molte persone si sono rifiutate di farsi somministrare il vaccino. Per noi è stata una battuta d’arresto e anche un po’ una sconfitta. Adesso le cose vanno un po’ meglio, ma dobbiamo impiegare tanto tempo per dare spiegazioni ai pazienti ed è tutto tempo sottratto alla pratica clinica quotidiana.