DANTE E L’EQUILIBRIO DEI DUE SOLI

 

L’impegno politico vissuto in prima persona fa di Dante uno dei protagonisti della vita civile di
Firenze. In questo periodo egli difende l’autonomia della città dalle ingerenze della Chiesa, militando
tra i guelfi, nella fazione moderata dei bianchi. Pur escluso dalla vita attiva di Firenze, Dante non
rinuncia a coltivare il proprio pensiero politico che si indirizza verso il rifiuto della frammentazione
causata dall’esperienza dei Comuni. La genesi del pensiero politico di Dante è strettamente legata
all’esperienza del poeta, non solo come cittadino della Firenze di quel tempo, ma anche alla sua
esperienza politica. Tale orientamento è ben visibile al tempo dell’elezione imperiale di Arrigo VII e
del viaggio da lui intrapreso nel 1310 in Italia per riaffermare i suoi diritti: in questa occasione il poeta
scrisse tre Epistole in lingua Latina in cui esorta i principi e i popoli d’Italia a sottomettersi e
l’imperatore a punire i ribelli. Infatti all’annunciata discesa di Arrigo, volta a restaurare il decaduto
potere imperiale in Italia poiché da un lato vi era la presenza dei Comuni e dall’altra la lotta fra le due
fazioni , ovvero quella dei guelfi e ghibellini, Dante reagisce con un rinnovato interesse per la vita
politica e con nuove speranze nella fioritura del potere dell’imperatore. Il quadro della situazione di
Firenze non cambia se si volge lo sguardo ai rapporti tra i Comuni Italiani. Ciò che Dante scrive nel
Convivio è un’istantanea della situazione politica del suo tempo. Oltre che dall’amore di Dante per
l’indipendenza della patria, la realizzazione “dell’Humana civilitas” e di un potere universale al di
sopra di quelli particolari nascerebbe così, per soddisfare un esigenza strettamente legata alla realtà
politica del suo tempo, quella cioè di garantire alla sua città e agli stati italiani un protettore potente
contro “l’opera usurpatrice della Chiesa“. In realtà , la profondità, la passione degli argomenti, coi
quali Dante negli anni dell’esilio condanna la volontà di dominio del Papa, Bonifacio VIII e difende
l’autonomia del potere temporale da quello ecclesiastico, superano l’ambito dell’amore per la patria.
Entra così in campo il “ presunto “ anticlericalismo di Dante.
Nella lettera ai Cardinali Italiani, egli sostiene che alcuni pontefici sono stati causa dell’eclissi del
papato e la cura degli interessi mondani, che
ha invaso la gerarchia, ha condotto la Chiesa
alla rovina. Questo “preteso“ anticlericalismo
ha fatto di Dante un fermo sostenitore della
separazione tra potere temporale e spirituale.
Dante così auspica un ritrovato equilibrio tra i
<< due soli >> in grado di riportare la penisola
italiana allo splendore. Cosi egli matura la
visione della storia, secondo cui la Chiesa
avrebbe distrutto la pace degli uomini. Solo
una monarchia universale avrebbe potuto
ristabilire le condizioni perdute! Questa
concezione non viene meno quando la morte di
Arrigo VII pone fine alle speranze che
l’imperatore aveva suscitato. E a questo punto
che il pensiero politico di Dante prende la sua
forma definitiva nel De Monarchia.
Quest’ultimo, trattato in latino, consta di tre
libri a cui sono affidati tre argomenti principali:
uno quello di affermare la necessità della
Monarchia universale per il benessere del
mondo; l’altro, il sostenimento del popolo romano come depositario del potere imperiale e infine la
reciproca indipendenza tra impero e papato che Dante rappresenta, per metafora, come due soli : il
Papa rappresenterebbe il sole, mentre l’imperatore la Luna, in quanto quest’ultima vive di luce
riflessa. Egli, tuttavia, si chiede la ragione dei malanni d’Italia e la individua nelle discordie tra le
diverse entità statali. Inoltre Dante contesta le tesi più diffuse ai suoi tempi, ovvero, la tesi teocratica,
che sostiene la dipendenza dell’impero dalla Chiesa, in quanto egli era “Vicarius Christi” e il potere
gli deriva direttamente da Dio; quella imperialista, che prevede la preminenza dell’impero sulla
Chiesa, in quanto le armi imperiali sarebbero le sole a garantire al Papa la pace necessaria e, infine,
quella regalista che predica la preminenza del sovrano nazionale sulle istituzioni come Chiesa e
Impero.
Concludendo possiamo affermare che al centro del pensiero di Dante c’è la concezione di un doppio
dovere per l’uomo: verso se stesso e gli altri uomini, ma anche verso Dio. Fine dell’uomo è la
conquista della duplice felicità, perciò Dio stesso gli ha dato due guide, l’imperatore e il pontefice,
che devono condurlo al raggiungimento del bene totale. Tuttavia, Dante concepisce la felicità terrena
come una meta indicata da Dio stesso. In altre parole, il pontefice, per Dante, continua a rivestire un
primato di ordine religioso, in quanto vicario di Cristo sulla Terra, un vero e proprio: “Alter Christus”.

DOMENICO MARIA PELLIGRA 3 A LICEO CLASSICO – “GIOSUE’ CARDUCCI” COMISO (RG)