Il diritto di cittadinanza nell’epoca romana

A Roma tutti potevano guadagnarsi la cittadinanza, anche gli schiavi e gli stranieri. 

I cittadini liberi si dividevano in “civili” e “pellegrini”. I pellegrini erano gli stranieri recuperati dai romani nei terrorizzi conquistati, e avevano la possibilità di acquisire i diritti se fossero stati particolarmente meritevoli e corretti nei confronti di Roma. I cittadini romani invece si dividevano in coloro che avevano tutti i diritti e coloro che invece erano privi del diritto di voto (sine suffragio). 

Gli schiavi invece, se si sarebbero mostrati degni, avrebbero ottenuto una cittadinanza non completa. Tuttavia ben presto la liberazione di molti schiavi, spesso provenienti da popolazioni straniere, cominciò a comportare problemi d’ordine sociale: ciò cominciò soprattutto a notarsi quando divenne uso accettare la liberazione degli schiavi anche attraverso rituali non propri dello “ius civile”, quindi non sottoposti al controllo della comunità o del potere pubblico. Ecco quindi che per risolvere il problema vennero promulgate due leggi, l’Aelia Sentia e la Iunia Norbana del 19 d.C., che concedevano allo schiavo manomesso in certi casi solo lo status di peregrino (straniero) o di latino.

La cittadinanza poteva essere inoltre conferita su base individuale, dapprima dal popolo riunito in assemblea (tramite una lex) o da un atto del magistrato autorizzato ex lege, successivamente dalla volontà dell’imperatore, sulla base di meriti di vario tipo. Si poteva inoltre ottenere la cittadinanza di diritto come premio per alcuni servizi, in particolari circostanze:

-Dopo aver servito a Roma per qualche anno nel corpo dei vigili;

-Dopo aver speso una cospicua parte del patrimonio personale per costruire una casa a Roma;

-Dopo aver portato a Roma frumento per un certo numero di anni;

-Dopo aver macinato grano a Roma per anni.

Questi ultimi modi di ottenimento erano però riservati soltanto a coloro che possedevano la cittadinanza latina, una via di mezzo tra la condizione di romano e di straniero

Essere cittadino romano comportava una notevolissima serie di privilegi, variabili nel corso della storia, a creare diverse “gradazioni” di cittadinanza.

Nella sua versione definitiva e più piena la cittadinanza romana consentiva l’accesso alle cariche pubbliche e alle varie magistrature (nonché la possibilità di votarle nel giorno della loro elezione), la possibilità di partecipare alle assemblee politiche della città, svariati vantaggi sul piano fiscale e, importante, la possibilità di essere soggetto di diritto privato, ossia di poter presentarsi in giudizio attraverso i meccanismi dello “ius civile”, il diritto romani per eccellenza.

La cittadinanza si poteva anche perdere involontariamente o volontariamente: nel primo caso accadeva quando si subiva una condanna criminale o si esercitava il diritto di esilio per evitarla e,  ovviamente, quando si perdeva la libertà, a seguito di cattura da parte di popolazione straniera (condizione che il diritto romano riconosceva legalmente) o qualora il creditore esercitasse il suo diritto di vendere come schiavo il debitore insolvente. La cittadinanza, così come poteva essere concessa, poteva essere tolta mediante un atto del potere politico: accadde ad esempio con la Lex Licinia Mucia, che negava la cittadinanza agli italici e ai latini, una delle cause dello scatenarsi della guerra sociale. Il caso più classico invece di rinuncia volontaria alla cittadinanza era il trasferimento della residenza in un’altra città, sia che si trattasse di una città straniera che di una latina, secondo lo ius migrandi.

Ludovica Mandato, III C