L’Agnese va a morire di Renata Viganò

Nel celebrare la festa della Liberazione, ricorrente il 25 aprile, è interessante ricordare alcune opere letterarie che ci hanno trasmesso l’essenziale conoscenza della seconda guerra mondiale e delle persone che ne furono coinvolte.

Tra i vari scritti, c’è il brillante esempio de “L’Agnese va a morire” di Renata Viganò, pubblicato nel 1949. 

Si tratta di un romanzo sulla Resistenza dai tratti autobiografici, poiché la stessa scrittrice fu partigiana e la storia è ispirata alla vita di una sua cara amica, anch’essa partigiana. 

Uno dei punti di forza di questo romanzo è sicuramente la narrazione al femminile. Attraverso una potente protagonista, la scrittrice è in grado di mostrare le tante facce della guerra e le emozioni di chi la vive, affrontando i temi dell’attesa e della rinascita

Seguiamo così le vicende di Agnese, un’umile donna che vive con il marito Palita, da tempo malato e impossibilitato ai lavori pesanti, nella loro modesta casa di campagna nel Delta del Po emiliano. La vita della donna però cambia dal momento in cui l’uomo viene deportato dai tedeschi, morendo durante il viaggio in treno. Dopo un episodio che metterà Agnese in una situazione di pericolo, la protagonista si ritrova a collaborare con i partigiani come staffetta, pur non essendosi mai interessata alla politica.

Questo romanzo è in grado di trasmettere in modo eccellente, anche a distanza di decenni, quello che è il vero significato della Resistenza, portata avanti dal popolo, dalle persone comuni animate dal rifiuto verso la guerra.

Inquadra efficacemente il lavoro strenuo dei partigiani, la cui forza si basava sull’essere dappertutto e da nessuna parte, nascondendosi tra i nemici. Nemici che non erano solo i tedeschi, ma gli stessi compatrioti che, spinti dalla paura, accoglievano tranquillamente i soldati in casa propria “come fossero fratelli”, quasi compiacendosi della compagnia di coloro che portavano morte nel loro paese. Ma come loro, anche i tedeschi avevano paura, e non gli importava di distruggere un intero villaggio per scovare i pochi ma tanto temuti ribelli, compiendo qualcosa che la stessa protagonista definisce “un lavoro della paura”. 

In ciò che per molti era solo una banda di ribelli (“E se non ci fossero stati quei delinquenti abituali, dei fuorilegge, quegli assassini partigiani, l’Italia sarebbe un paradiso, una villeggiatura.”), Agnese vi ha trovato una nuova famiglia, dopo aver perso la propria, della quale lei ha ricoperto affettuosamente il ruolo di mamma. 

“Non avevano bisogno di nulla e di nessuno, avrebbero potuto starsene sicuri nel loro angolo appartato, badare agli affari, curare gli interessi, far quattrini con la borsa nera e invece rischiavano la pelle tutti i giorni: lavoravano per la Resistenza.”  

L’Agnese non è solo la protagonista della storia, ma l’incarnazione di una volontà collettiva, che deve farsi carico di un senso del dovere verso un mondo migliore. Ciò che spinge Agnese ad accogliere questo nuovo stile di vita non è la razionale motivazione politica, bensì un pensiero che è già inconsciamente presente dentro di lei, sviluppatosi spontaneamente durante gli anni silenziosi della sua esistenza.  

All’interno di un contesto storico difficile l’Agnese si forma e si trasforma, il suo cuore si fa sempre più pesante per inseguire l’unica causa che le rimane, e arriva quasi ad “annullarsi” come persona. Infatti si autodefinisce “donna senza qualità”, senza accorgersi del coraggio e della forza di volontà che servono a fare la vita del partigiano:  

“Questa cosa, quest’altra posso farla io se sono buona» ed erano sempre cose pericolose, rischiava la vita tutti i giorni, lei grassa, malata e quasi vecchia”.  

L’Agnese prende tratti estremamente reali e umani, è una donna che attraversa dolori e fatiche, ma anche le brevi gioie che la guerra concede. Eppure è al tempo stesso un personaggio dalla grandezza disumana, la cui morte è la finale realizzazione del mito che incarna.  

“L’Agnese va a morire” è un romanzo ben riuscito, che con parole attentamente soppesate descrive meravigliosamente gli affanni di persone che inseguono un’ideale, le intenzioni di un nemico spietato (ma in fondo debole) e la negligenza di un popolo che ha come unica colpa quella di essere povero e ignorante, nell’ambientazione di una guerra che rende i ricchi sempre più ricchi e i poveri ancora più poveri. La storia viene accuratamente contornata dalle efficaci descrizioni di un paesaggio spesso grigio e spaventoso, sospeso tra cielo e acqua, le cui caratteristiche diventano le emozioni stesse dell’Agnese e dei compagni, ma che a volte può anche ritornare a risplendere della viva forza di volontà dei partigiani.

“ I tedeschi non sapevano che fra quegli uomini e quelle donne, molti, quasi tutti, erano partigiani. Staffette inviate con un ordine nascosto nelle scarpe, dirigenti che andavano alle riunioni nelle stalle dei contadini, capi che preparavano l’azione dove nessuno l’aspettava. La forza della Resistenza era questa: essere dappertutto, camminare in mezzo ai nemici, nascondersi nelle figure più scialbe e pacifiche. Un fuoco senza fiamma né fumo: un fuoco senza segno. Ogni uomo, ogni donna, poteva essere un partigiano, o poteva non esserlo. Questa era la forza della resistenza”.

 

                                                                                                                          Chiara Pica