Le donne vogliono parità non vendetta

Il 97% è una quota alta, giusto? Quando leggiamo questa percentuale pensiamo alla quasi totalità, quasi il cento percento. Ebbene, questa cifra sta ad indicare le donne britanniche di età compresa tra i 18 e i 24 anni che hanno subito violenze (verbali, fisiche, psicologiche).

Questo dato è venuto fuori a marzo del 2021, quando Sarah Everard, trentatreenne londinese, venne ritrovata senza vita dopo essere scomparsa per una settimana. Il suo carnefice, Wagner Couzens, era un poliziotto. Si esatto, una persona che avrebbe dovuto proteggerla, una persona di cui avrebbe potuto fidarsi. Couzens invece l’ha arrestata, con una falsa accusa, l’ha portata in macchina, l’ha stuprata, uccisa e abbandonata nel bosco vicino casa.

Dopo questo evento i media si sono posti solo domande sbagliate: “perché Sarah era ancora in giro alle 21:30?” “Perché andava a piedi e non in taxi?”.

Allora io mi chiedo, perché dobbiamo essere noi a preoccuparci di non essere violentate? Perché dobbiamo essere noi a prendere le giuste precauzioni? Perché non possono essere gli uomini a controllare i propri impulsi? E soprattutto, perché noi, le VITTIME, dobbiamo essere colpevolizzate per ciò che ci accade?

Naturalmente, non sono stata l’unica a pormi queste domande e ad essere disgustata dall’accaduto. Infatti, centinaia di donne londinesi sono scese, il giorno dopo il ritrovamento di Sarah, nelle piazze a protestare. Tale protesta, però, è stata ritenuta illegale. Diverse partecipanti, quel giorno, sono state arrestate. Questo avvenimento ha avuto almeno un lato positivo: molta gente ha cominciato ad aprire gli occhi. Da un sondaggio si è evidenziato che, su 1100 donne di età compresa tra i 18 e 24 anni, il 97% ha subito violenza. Sono venuti fuori ulteriori dati sconcertanti: l’80% delle donne intervistate ha dichiarato di aver subito violenze in luoghi pubblici, il 96% ha affermato di non aver denunciato l’accaduto e il 45% ha sostenuto di non credere che una denuncia possa fare la differenza.

La situazione è grave, molto molto grave se abbiamo la convinzione che, parlare con le autorità, non serva a nulla, ma intendiamoci, viviamo in una società che non ha mai mostrato particolare riguardo nei nostri confronti e, soprattutto, le leggi non sono mai state le nostre migliori alleate.

Fino a 67 anni fa, in Italia era ancora in vigore lo “ius corrigendi”, ovvero l’uomo aveva il diritto di educare e correggere i comportamenti di moglie e figli anche con l’uso della violenza; fino a 60 anni fa, le donne non potevano diventare magistrate perché si pensava che la capacità di giudizio potesse essere “compromessa” dagli sbalzi ormonali del ciclo mestruale; fino a 52 anni fa, l’uso della pillola anticoncezionale era illegale; fino al 1981 era ancora legale il delitto d’onore (gli uomini che uccidevano le mogli per aver compromesso la loro reputazione potevano avere una riduzione dalla pena) e il matrimonio riparatore (lo stupratore poteva evitare il carcere se sposava la vittima); nel 1996 la violenza sessuale non era considerata un reato contro la persona ma contro la morale pubblica e il buon costume, era cioè un atto che danneggiava il pudore della collettività e non la libertà personale e fino a quattro anni fa, quindi nel 2019, non esistevano i reati di diffusione di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso dell’altra persona.

Oltre alle leggi sembra però che nemmeno giornali e televisioni ci siano tanto amici, perché siamo nel 2023 e ancora non sanno parlare correttamente di femminicidi; cercano di continuo un movente (gelosia, raptus, crisi, furia) anche se il femminicidio ha per movente una sola colpa, quella di essere donna. I femminicidi avvengono quando una di noi viene uccisa per ristabilire l’ordine in cui è l’uomo a comandare. Continuano a usare parole come “emergenza”, “incubo”, “dramma”, così che il lettore abbia un senso di sporadicità, di  insolito, di eccezionalità, quando invece i femminicidi non sono una fatalità o un’eccezione ma una quotidianità. Lo sappiamo tutti che un’altra donna morirà, ma non facciamo nulla per fermare questa spirale di indifferenza collettiva.

I giornali insistono a dare voce ai parenti dell’assassino. Ma cosa potrebbero mai dire dei genitori di un figlio che ha appena ucciso la sua ex-fidanzata se non che “era un bravo ragazzo”, che “le faceva pure i biscotti”.  Oramai noi l’abbiamo imparato che nemmeno dei bravi ragazzi ci si può fidare.

Si passa da un eccesso ad un altro perché, se prima “era un bravo ragazzo”, in poco tempo diventa un “mostro”, un “folle”; ma chiamarlo così non fa altro che aumentare il senso di distacco, lo allontaniamo dalla società, quando è invece l’emblema della stessa società, non un mostro ma un figlio del patriarcato.

Io sono stanca, sono stanca degli uomini che pensano di meritarsi una medaglia perché trattano le donne come persone, stanca di parcheggi bui e chiavi incastrate tra le dita pronte per essere usate come armi, stanca di sentirmi dire “sorridi e sii carina”, stanca di dover combattere per dei diritti che mi spettano, per una voce che mi spetta, stanca di una società che non accetta quando gli sbatti in faccia la realtà dei fatti. Sei  costretta a trattenere le tue vere emozioni (rabbia, paura) perché se urli ciò che provi ti prendono per pazza e le misere possibilità di essere presa sul serio evaporano all’istante. Noi donne vogliamo parità e non vendetta. 

Se non hai mai finto di stare con qualcuno al telefono perché spaventata, se non hai avuto paura di percorrere un tratto di strada da sola (anche se ben illuminata) o scendere dall’autobus poco prima che si chiudano le porte perché qualcuno ti fissa insistentemente e hai paura che scenda assieme a te per seguirti, di essere giudicata per come ti vesti, per ciò che fai o dici,  non sai nulla del silenzio e dello sgomento.

Sono stanca di sentire commenti sessisti e misogini, stanca di ascoltare “mi ha detto no con la voce, ma si con gli occhi”, stanca di sentir parlare di “raptus”, stanca di sentire che la colpa è solo nostra per come eravamo vestite. Anche se indossiamo jeans e maglietta, felpa e pantaloni della tuta, ci aggrediscono comunque, continuano lo stesso a farci del male. Non sappiamo più cosa metterci addosso per far sì che non ci accada nulla. A questo punto, sono gli uomini a doversi dare una controllata, ops, ho sbagliato, errore mio… gli uomini che fanno queste cose brutte devono controllarsi, non sia mai che si generalizzi dicendo “gli uomini”, alcuni di loro inizierebbero a sbraitare difendendo a spada tratta il loro orgoglio al grido di “Non tutti gli uomini!”. Scusate, ma mi fa sorridere come, alcuni ragazzi, si sentano così feriti da questa generalizzazione tanto da non preoccuparsi minimamente del contesto. La loro premura non è rivolta alla vittima, ma al desiderio irrefrenabile di far capire che non tutti sono così. Come se essere definiti stupratori sia peggio che essere stuprati, ma allora, se tanto ti fa schifo essere nella stessa categoria di quei criminali, perché non fai niente per impedire che accada di nuovo? 

Sono stanca, stanca e arrabbiata; noi donne siamo intelligenti, belle, forti, talentuose, gentili, meravigliose e uniche. Non credo proprio che meritiamo pugni, schiaffi, porte in faccia e rifiuti semplicemente perché siamo ciò che siamo. Non mi va e non accetto di essere vista solo come la fidanzata di qualcuno o di dover dipendere completamente da quel qualcuno, la mia voce merita di essere ascoltata.

Il mio pensiero l’ho espresso, adesso spetta a quel 97% di uomini a pronunciarsi.

Virginia Di Monte