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Tiberio Bentivoglio, testimone di mafia, incontra gli studenti del Liceo D’Oria

di Francesco Repetto, Filippo Moreschini e Pietro Speroni di 2B

Tiberio Bentivoglio, un noto testimone di giustizia, è venuto a scuola giovedì 18 gennaio per raccontare agli studenti la sua perenne lotta contro la criminalità organizzata e spiegare come un incontro con un mafioso gli ha cambiato per sempre la vita.

L’apertura di un’attività commerciale di successo

Nell’ottobre del 1979, Tiberio insieme alla moglie Enza decise di aprire una piccola attività commerciale per sostenere economicamente la famiglia che da poco si era allargata con l’arrivo di una bambina. Grazie alle voci di paese, la Sanitaria, piccolo negozio allestito nel garage sotto casa, ottenne subito un grande successo e grazie al grande afflusso di clienti dovettero assumere una dipendente.  Visto che la merce che arrivava era sempre più numerosa, assunsero anche un magazziniere.

In seguito allargarono il negozio di 50 mq, ma non bastò. Decisero quindi di affittare un locale di 400 mq situato in una strada molto trafficata di Reggio Calabria, assumendo altri quattro dipendenti.

Tiberio, vedendo come andavano gli affari, si licenziò dalla farmacia in cui lavorava e si dedicò completamente all’attività familiare andando in giro per i paesi della Calabria a vendere i prodotti del negozio come grossista.

Il rifiuto di pagare il pizzo 

Proprio in quel periodo di crescita per l’azienda e quindi per la famiglia Bentivoglio, come un fulmine a ciel sereno, un conoscente del quartiere di nome “Nino Liotta” lo fece scendere dalla macchina con una scusa e gli chiese il pizzo. A questo punto dopo un lungo e difficile colloquio con la moglie decisero insieme di non voler pagare il pizzo alla mafia immaginando il pericolo a cui sarebbero andati incontro.  “Stai peggiorando le cose” lo minacciò violentemente il mafioso.

Le minacce, la bomba e l’incendio del negozio

Nonostante questo, Tiberio ed Enza riuscirono ad inaugurare il nuovo negozio il 25 aprile 1992, aumentando il numero di dipendenti a sette. Grazie alla nuova apertura, la famiglia si arricchì, ma cominciano ad arrivare intimidazioni e piccoli furti: per questo Tiberio e sua moglie Enza decisero di denunciare i mafiosi che li avevano minacciati.

Si avvia quindi un processo che li porterà a testimoniare in un’aula bunker dove il giudice chiederà a Tiberio di indicare la persona che gli aveva chiesto pizzo; lui racconta che questo è stato il momento più difficile del processo. Alla chiusura del fascicolo tre dei cinque imputati furono condannati per associazione mafiosa. Ma le minacce non finirono qui. 

Tiberio racconta che molte volte gli è stato chiesto di assumere figli o parenti di mafiosi ma che lui ha sempre rifiutato. 

Un giorno – racconta – si presenta in negozio una donna incinta che dice di voler acquistare molti prodotti per il nascituro, il costo della merce scelta dalla donna superava i tremila euro. La donna assicura Tiberio che sarebbe venuto a pagare suo marito. Alla domanda sull’identità di quest’ultimo la donna gli fa il nome di un latitante molto conosciuto; Tiberio, sentendo il nome, si rifiuta di lasciare tutta quella merce in  “pagherò”. La vede uscire dal negozio con un sorriso sarcastico e fare una telefonata.

Dopo sedici giorni, il 16 aprile 2003 una bomba viene messa nel suo negozio. Grazie al prezioso aiuto della polizia scientifica, vengono individuati i responsabili ma rimangono in carcere solo per quattro anni.

Dopo due anni precisi dalla bomba, il 13 aprile 2005, viene appiccato un incendio nei locali della  Sanitaria. L’incendio parte alle due di notte, ma – a causa del lento bruciare della merce-  i carabinieri se ne accorgono solo alle quattro e mezza del mattino ed è ormai troppo tardi per salvare il negozio.

Tiberio e Enza perdono oltre quattrocentomila euro di merce e l’attività fatica a riprendersi. 

Inizialmente non si comprende quale sia la causa dell’incendio, visto che le minacce in quel periodo erano diminuite:  si pensa a Santo Bugitti, latitante, la cui abitazione confinava con la struttura dove si riuniva l’associazione culturale creata da sei amici del quartiere di cui Tiberio era il presidente.

Si pensa che l’incendio sia opera del noto mafioso Santo Bugitti, perché proprio lui, alcuni giorni prima aveva detto a un socio di chiudere. Due dei soci si ritirano e l’associazione, che era arrivata a ben settanta partecipanti, è costretta a chiudere. Dopo alcuni anni si scoprirà che a mandare il mafioso era stato proprio il suo prete, Don Nuccio Cannizzaro presidente di un’ altra associazione culturale che era stata penalizzata nei finanziamenti dalla presenza di quella di Tiberio. Don Nuccio è tuttora sotto processo.

Dopo un ulteriore incendio al magazzino, propongono a Tiberio la scorta ma lui la rifiuta.

L’attentato e la nuova attività

Tre anni dopo, il 9 febbraio 2011, mentre si trova sull’Aspromonte gli sparano alla schiena sei colpi. Hanno sparato per uccidere ma per fortuna la pistola si inceppa e i mafiosi scappano. Grazie alla bravura dei magistrati l’indagine si chiude  e vengono arrestate cinque persone.

Enza e Tiberio decidono di spostare l’attività perché ormai nel loro quartiere c’è diffidenza e in pochi frequentano ormai il loro negozio. In centro a Reggio nessuno vuole affittare loro un locale, ma arriva la proposta di impiantare l’attività in  bene confiscato, un luogo prima appartenente alla mafia alla quale era stato sequestrato.

Inaugurano il nuovo negozio e alla festa partecipano centinaia di persone,  personalità come Don Ciotti e Rosi Bindi. Il 28 febbraio 2016 subirono un altro incendio al magazzino, ma da allora ad oggi non hanno più subito fastidi dalla mafia.

Tiberio ed Enza hanno vinto la  loro battaglia.