Diario di un prigioniero – Il Peso

Dopo la Pena, arriva il Peso. 

“Del giorno in cui mi cadde il mondo addosso,

Ricordo tutto, pure l’ora e il posto.

Il contraccolpo poi la stretta al collo.”

La rabbia torna ancora, stavolta incarnando a pieno l’ideale del sopruso – opponendosi alla giustizia. 

La caduta di Atlante segna un punto di rottura e inizia a dare un senso all’album stesso.

Il mito del Titano e Dike, la dea della giustizia, disegna i contorni di una metafora bellissima, facendosi carico di significati più intimi e profondi.

Il brano, di fatto, si sviluppa su più livelli d’interpretazione, giocando con l’ascoltatore, ingannandolo, celandosi dietro suoni elettrici e frenetici.

Con la rabbia, si ripresenta anche quella velata critica all’attualità, che, servendosi dei ruoli dei due protagonisti, mette in luce l’impossibilità di una giustizia reale e dinamica in una società in cui domina la forza, la superbia, il potere.

“A me interessa poco il tuo pianeta bello e vandalo

Piuttosto mi do fuoco, sto più lieta dentro il Tartaro!”

Eppure per Caparezza il mondo che crolla sulle proprie spalle e l’intera realtà circostante che si sgretola atomo dopo atomo rappresentano il momento della diagnosi di acufene. 

L’istante in cui il pavimento sembra mancare sotto ai piedi e un peso schiacciare il respiro, dunque, coincide con l’attimo in cui la stessa musica, centro del mondo per tutta la sua esistenza, gli volta le spalle, tramutandosi in un perenne fischio assordante. 

“Io che cado, dal mondo schiacciato mentre la rincorro

Atlante e Dike, amore e psiche, Terra e giustizia

Fine della storia, fine del rapporto”

 

Alessandra Masciantonio