Congo is bleeding: tra povertà e diritti umani

 #Congoisbleeding, un singolare hashtag si aggira come uno spettro sulle varie piattaforme social. Appare la notizia di quello che è a tutti gli effetti un nuovo Jan Palach: un giovane congolese si è recentemente dato fuoco di fronte a una folla di persone a Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, reggendo un cartello recitante “Stop the genocide in Congo”. Cosa sta accadendo nel paese?

Il Congo è stato storicamente vittima di varie politiche imperialiste, a partire dal 1885, quando il paese divenne proprietà del re Leopoldo II del Belgio fino al 1908, periodo soprannominato “Orrori del Congo”, per via delle innumerevoli atrocità che furono perpetrate nei confronti della popolazione. Il paese non poté liberarsi dai conflitti negli anni a seguire.

Dal 1996 in particolare, alcune guerre hanno insanguinato il   paese, uccidendo oltre 6 milioni di persone negli anni. Questi conflitti sono talvolta chiamati “African World Wars” a causa dell’ampio coinvolgimento di paesi africani come Ruanda, Uganda, Zimbabwe, Angola, Libia, Namibia e molti altri. Le motivazioni di questi conflitti sono sostanzialmente economiche, poiché il paese è da sempre fonte di preziose risorse naturali. Queste ragioni sono ancora oggi alla base delle condizioni in cui si trovano il paese e il suoi abitanti, costretti alla sottomissione alle politiche imperialiste di paesi che sfruttano le loro risorse. Il Congo infatti ad oggi estrae più del 70% del cobalto mondiale estratto, i cui giacimenti sono stati acquistati nella stragrande maggioranza da aziende cinesi.

Ma perché il mondo è alla ricerca di questo prezioso minerale? Il cobalto è il materiale protagonista del  catodo della batteria, il cui ruolo è quello di estendere il più possibile la durata delle batterie al litio. Proprio grazie al cobalto dunque, è possibile incrementare l’autonomia degli smartphone, di cui non riusciamo ormai a fare a meno, e delle auto elettriche, sempre più utilizzate negli ultimi anni nonostante le controversie sugli effettivi benefici per la sostenibilità ambientale. Si dibatte infatti sul prezzo delle materie prime, in primis proprio il cobalto, e sull’impatto ambientale e sociale che hanno per essere reperite, lavorate, impiegate e poi smaltite.

La ricerca del cobalto infatti, oltre ad aver causato in realtà un notevole inquinamento delle falde acquifere delle città vicine alle miniere, è direttamente collegata allo sfruttamento del lavoro minorile, alle violenze sulle donne, e più generalmente alla violazione dei diritti umani. Il cobalto inoltre è tossico e  agisce essenzialmente come un lento veleno. Viene estratto principalmente in due modi: una catena di approvvigionamento industrializzata con macchinari e tunnel regolamentati e l’ estrazione artigianale senza alcun tipo di equipaggiamento. L’estrazione mineraria artigianale è dunque una lenta condanna a morte che i congolesi sono costretti ad autoinfliggersi per poter sopravvivere alle condizioni di estrema povertà.

Secondo stime dell’Unicef, 40.000 dei 100.000 congolesi che lavorano in miniere artigianali, sono bambini o adolescenti. Un’inchiesta del Washington Post ha rivelato che il cobalto estratto in maniera artigianale viene poi rivenduto soprattutto ad aziende cinesi, come la Congo Dongfang Mining, controllata da Huayou Cobalt, che fornisce circa il 20% del cobalto utilizzato dalla Apple. Anche Panasonic, principale fornitore di batterie di Tesla, compra cobalto congolese. Le altre due produttrici di batterie per l’azienda di Elon Musk, la sudcoreana LG Chem e la cinese Catl, non sono da meno.

Gli Stati Uniti hanno inserito il cobalto nella lista delle “risorse da conflitto”, ovvero quelle per il cui controllo si possono scatenare guerre e la cui produzione può causare devastazione, inquinamento e sfruttamento. Varie testate giornalistiche invece non si risparmiano di definire ciò che sta accadendo in Congo come un vero e proprio “genocidio silenzioso”, che continua da anni senza che nessuna delle autorità se ne interessi realmente, a causa degli evidenti vantaggi economici che ne derivano.

Ci sono alternative per realizzare batterie senza cobalto. Ma tali soluzioni ancora non garantiscono la stessa affidabilità offerta dal “metallo blu”. La Cina stessa si è mossa per prima, con Aliant Battery che ha intrapreso un percorso di sviluppo orientato ad una scelta etica ed ambientale. L’alternativa più sfruttata prevede il terzetto litio-ferro-fosfato, la preferita dai produttori di batterie cinesi.

Non è semplice rinunciare al cobalto congolese, considerando l’aumento della diffusione di veicoli elettrici, che comunque possono essere buoni alleati per limitare gli effetti del cambiamento climatico. Se le aziende intendono approvvigionarsi di cobalto dal Congo, devono impegnarsi ad affrontare il problema del lavoro minorile e della sicurezza nelle miniere come priorità aziendali. Anche noi come comuni cittadini possiamo contribuire, innanzitutto facendo informazione per diffondere la consapevolezza, e privilegiando quando possibile oggetti elettronici usati o con batterie che utilizzano materie prime di riciclo, e desistendo dal comprare ogni anno il modello più nuovo di smartphone.

 

Chiara Pica