L’ultima vittoria

Autrice: Dafne Maria Cemin

 

Copertina:

Disteso sulla pista, senza casco, senza vita. La bandiera rossa veniva sventolata sul bordo della pista. Avevo 8 anni, pochi mesi dopo ne avrei fatti 9. Non ero troppo popolare, ma avevo il mio gruppo di amici con cui mi divertivo. Le moto erano l’unica cosa che, nonostante tutto, mi faceva prendere una pausa dalla mia vita, dai problemi e dalle insoddisfazioni.

L’ultima vittoria

Ecco come comincia. Un motociclista. Il suo caposquadra. Alla ricerca della velocità…

Mh nah. Vediamo un po’. Ecco come comincia. Un pilota e il suo caposquadra. E poi i tecnici di gara, il tecnico delle sospensioni, il tecnico delle gomme, il tecnico dell’elettronica e i meccanici. Tutti in cerca della velocità. Dal più piccolo circuito di mini moto al più veloce circuito del gran premio, da piccole moto da poche centinaia di euro a missili MotoGP da milioni. Da emozioni infantili ai 30 km/h a sfide a 350 km/h.

Il principio è sempre lo stesso: essere i più veloci in pista e capire come fare a correre ancora di più. Al Grand Prix, gareggiare significa trasformare il fuoco in velocità. La combustione del carburante con l’aria nel motore e il fuoco nel cuore di un pilota disposto a rischiare tutto per vincere.

Ecco cosa devi fare: frena il più tardi possibile. Resta largo. Gira. Tocca il cordolo. Accelera. Frena. Piegati… di più. Più veloce. Resta in sella alla moto. Tocca il cordolo. Accelera. Resta in sella alla moto. Cadere… fa male. Ti distrugge la moto. Ti distrugge il corpo. Distrugge le tue chance. Resta… sulla… moto. E lotta. Lotta fino al traguardo. Lotta fino alla vetta. Lotta. Marco l’ha capito bene…

Questa è la storia di un guerriero, di uno dei più veloci motociclisti di tutti i tempi e del destino che lo attendeva al culmine della sua carriera e di come io l’ho vissuta.

Ore 10.05, al secondo giro del GP di Malesia, Simoncelli cade e viene travolto da Edwards e Valentino. Ore 10.45: è morto.

Io ero lì, sconcertata. Fissavo il televisore aspettando risposte, spiegazioni, rassicurazioni. Tu eri lì, disteso sulla pista, senza casco, senza vita. La bandiera rossa veniva sventolata sul bordo della pista. Avvenne il 23 ottobre 2011, a Sepang, in Malesia.

Avevo 8 anni, pochi mesi dopo ne avrei fatti 9. Non ero troppo popolare, ma avevo il mio gruppo di amici con cui mi divertivo. Le moto erano l’unica cosa che, nonostante tutto, mi faceva prendere una pausa dalla mia vita, dai problemi e dalle insoddisfazioni. Era la penultima gara di stagione e l’ultima del ”trittico asiatico”.“Marco tutte le cose più importanti le ha fatte in Malesia” racconta il padre” l’incidente più brutto, l’unico dove si è fatto più male, lo ha avuto in Malesia in 125 nel 2003 o 2004, poi ha vinto il mondiale in Malesia e il giro più veloce nella MotoGP nelle prove lo ha fatto in Malesia. C’ha pure voluto morire in Malesia! È una cosa veramente strana…”. Sono sempre stata appassionata al mondo dei motori; mio padre ha passato questa passione a mia madre che a sua volta l’ha passata a me e mia sorella, avendo anche mia nonna appassionata di Formula 1.

Avevo incastrato tutti gli impegni perfettamente per quel giorno: avrei visto la gara di prima mattina e poi avrei fatto la ricerca di scienze con due miei amici dell’epoca. Avevo organizzato che sarebbero venuti a casa mezz’ora dopo la gara, così che mi sarei potuta vantare dell’ottimo risultato che avrebbe fatto Valentino Rossi, riscattandosi con la Ducati, essendo un pilota fantastico nonché il mio pilota preferito da sempre. Ero gasatissima, come sono ogni volta che vedo un gara. Sai quella sensazione di ansia, agitazione, stupore, emozione che ti fa chiudere lo stomaco come se fossi al primo appuntamento? Ecco proprio quella sensazione provavo quando ti vedevo fare quei sorpassi al limite del consentito. Era appena iniziata al gara, avevate fatto 2 o 3 giri, e tu eri riuscito a recuperare posizioni. Eri davanti, non tra i primi 3, ma comunque avanti. Arrivi alla curva 11, quella maledetta curva 11, eri andato un po’ largo e te ne eri reso conto. Uscito dalla curva con il gas in mano cerchi di rimetterti in scia così da non perdere posizioni, ma qualcosa è andato storto. Un incertezza dell’anteriore ti ha sbalzato dalla moto. In pochi secondi eri praticamente a terra, ma comunque avevi quell’abitudine di rimanere attaccato al manubrio, con il gas aperto. È stato inevitabile l’impatto con Collin e Vale. Avresti potuto lasciare il manubrio e scivolare a sinistra sulla ghiaia facendo una normalissima caduta da gara, ma no… hai dovuto rovinare tutto.

Eri lì disteso sulla pista, senza casco, senza vita. In pochi secondi è calato il silenzio dappertutto. A Roma ha iniziato a piovere, ma non quella pioggia leggera, di qualche minuto no… quella pioggia triste, che ti mette un magone, che ti costringe a restare a casa a tutti i costi. Ero in lacrime. Ti vedevo che venivi trasportato con l’ambulanza subito in ospedale. Il dott. Costa era lì a darti rassicurazioni. Eravamo tutti in attesa di notizie dall’ospedale, con ancora un minimo di speranza. Stavamo spettando quando, di punto in bianco, inquadrano Paolo, il tuo babbo, in lacrime abbracciato alla Kate. Lì tutti abbiamo capito veramente. Te ne eri andato. Non era uno dei tuoi soliti scherzi che facevi ai 2 Paoloni o a mamma Graziella. Era tutto vero. Sai ancora oggi credo di non aver realizzato tutto ciò che è accaduto. Credo di non aver realizzato che non ci sei più. Credo di non aver realizzato il fatto di essere triste per questo. Le persone tristi si riconoscono. Sono quelle che per un attimo parlano, straparlano, dicono cazzate infinite; poi l’attimo dopo le vedi fissare il vuoto, in silenzio, lo sguardo perso, la mente chissà dove. Vuoi sapere una cosa? Ad ogni gara, quando guardo la griglia di partenza, cerco ancora il tuo nome, cerco sempre quel tenero Sic tra le ragazze ombrellino ed i meccanici, perché ogni volta spero che quello che è accaduto sia stato solo un brutto sogno, quando non ho ancora capito che mi sono già svegliata da quell’incubo.

7 Novembre 2011, circuito di Valencia

È stato emozionante. Non so tu dov’eri in quel momento. Io ero a casa, difronte alla televisione per vedere l’ultima gara di quell’anno. Essa è stata preceduta da un piccolo momento molto significativo: un tributo dedicato a te. Tutti i piloti di tutte le categorie hanno fatto un giro di pista, in tuo onore. Ognuno, nel cupolino, avevano un foglio con il 58 e Kevin Schwants ha fatto il giro in sella alla tua moto. Vale aveva una tua maglia e ha girato con la tua bandiera. I piloti erano in tutto 85, un 58 girato al contrario. Tuo padre disse:” Non volevo un minuto di silenzio… il silenzio mette angoscia. Marco avrebbe voluto chiasso perché lui era un chiassoso.” Alla fine del giro si fermarono sul rettilineo e fecero i fuochi d’artificio, tutti per te. I più bei fuochi d’artificio che abbia mai visto. Al termine aprirono un tuo mega poster che ricoprì tutto il palazzo dove c’è il podio, raffigurante te, sorridente. Lì ho capito una cosa molto importante: ognuno interpreta la corsa a modo suo. Alcuni piloti lo fanno per prendersi la rivincita sul mondo, per altri è importante dare il massimo. Altri lo fanno per divertimento, altri ancora perché amano sentire l’adrenalina. Ognuno ha le sue motivazioni. E vanno tutte bene così…

Il 27 ottobre ci sarebbe stato il tuo funerale lì nel paesello dove sei nato, a Coriano. Appena mia madre è venuto a saperlo non ci ha pensato due volte ed ha preparato un borsone. Partimmo giovedì stesso, di prima mattina, così da arrivare a Coriano in tarda mattinata e farci il funerale di pomeriggio.

Me lo ricordo come se fosse successo ieri.

Mamma aveva prenotato una suite nel centro di Coriano, a 10 minuti dalla chiesa, ad un prezzo stracciato. Una stanza molto elegante per 3 persone con camera da letto, piccolo salotto con cucina e balcone. Arrivate a Coriano eravamo un po’ perse: non sapevamo dove andare, era la prima volta che ci venivamo. Fortunatamente siamo riuscite ad arrivare in hotel in poco tempo, abbiamo lasciato le borse e ci siamo dirette al funerale. Una cosa incredibile. C’era gente proveniente da tutto il mondo. La piazza difronte alla chiesa era piena di cartelloni, foto, dediche, preghiere. Avevano anche messo 2 maxi-schermi nella piazza per far vedere a tutti. Ci mettemmo al lato della piazza, sulla sinistra, accanto alle transenne. Mi ricordo che mentre mi facevo largo tra la gente sentii parlare una coppia tedesca, piangere uno spagnolo e pregare un francese. Tu eri lì, in chiesa, disteso nella tua bara celeste con dei bellissimi fiori bianchi sopra. Dentro quella chiesa c’erano tutti i grandi delle moto: c’era Vale, il Paso, Capirex, Costa, Simone Corsi, l’allora capo della Dorna e, addirittura, Jorge Lorenzo che, a mio parere, non doveva venire. La messa fu bellissima, subito dopo il Vale fece rombare il motore della tua spettacolare HondaRC212V difronte alla chiesa, inutile dire che si sentì quasi in tutta Coriano. Il prete disse un sacco di belle parole, ma quelle più belle le hanno dette la Kate e il dottor Costa. La Kate disse:” Gli chiesi sei credente? E lui mi ha risposto: credente e praticante. E perché ce lo hanno portato via?” riferendosi ad un vostro amico ”Perché quando una persona finisce la sua missione sulla terra, Dio la richiama con se. Io da credente, ma non so bene in cosa, ho elaborato la mia teoria: lui aveva solo pregi ed era una persona perfetta e le persone perfette non possono vivere con noi comuni mortali.” Riuscì a malapena a pronunciare queste parole quando poi si mise a piangere. Passarono il microfono al dottor Costa, tuo carissimo amico, che disse una cosa ancora più dolce:” Una bara applaudita, però dentro c’è un viso che sta sorridendo. E dice: questo è l’ultimo scherzo che vi faccio, perché voi credete che io stia qui dentro, ma io me ne vengo a casa stasera; se ne va a casa con Paolo, con Rossella, con Martina, con Kate, ma quello che è più importante è che tornerà a casa con tutti voi. È questo il miracolo che ha fatto oggi Marco Simoncelli: può diventare esattamente quello che avete sempre sognato, diventa uno di voi, nel vostro cuore; e quindi oggi, qui, si celebra questa sua grande vittoria. La vittoria sulla morte di Marco Simoncelli.” Con quelle parole non ci fu una persona che riuscì a trattenere le lacrime. Eravamo tutti lì per te. Per festeggiarti ed onorarti. C’erano sempre sentimenti contrastanti quando ti vedevamo gareggiare, discutere in conferenza stampa, giocare a carte con gli amici prima delle qualifiche. La felicità, la tristezza e poi questo stato d’animo, al quale non so dare un nome, per cui sono contemporaneamente felice e triste, è questo quello che provo ripensando a quei momenti…

Febbraio, scuola

Era un giorno come un altro, dopo che te ne eri andato però era tutto un po’ più triste. Ero in quarta elementare all’epoca. Un giorno, mi ricordo, la mia insegnante di matematica ed inglese, la mitica miss. Gilda, ci ha dato il compito più bello che potessi mai desiderare: fare un testo sul nostro eroe, sul nostro mito, sulla persona più forte e coraggiosa a cui potessimo ispirarci. Lei aveva detto che il testo doveva essere di 1200 parole precise, che doveva parlare del nostro eroe, che chi voleva poteva farlo anche sul cartellone e che, ovviamente, doveva essere tutto rigorosamente in inglese. Esaltata, quel giorno tornai a casa e mi misi subito a scrivere, anche se la scadenza era di due settimane. Presi un bellissimo cartellone rosso di dimensioni colossali, feci un sacco di fotocopie di foto tue, dei tuoi amici e della tua famiglia che poi attaccai sul cartellone. Ci misi un secolo per fare il testo ma non perché 1200 parole erano troppe, ma perché erano poche ed anche perché avevo troppe idee e non sapevo come metterle in ordine. Ci misi tutta me stessa ed alla fine venne fuori il più bel lavoro che io abbia mai fatto. Orgogliosa lo portai a scuola per il giorno in cui il compito era assegnato. Ero l’unica ad aver fatto il cartellone, molti avevano solo scritto il testo sul quaderno, altri neanche lo avevano fatto. Alla maestra piacque così tanto che, prima, me lo fece leggere davanti a tutta la classe e poi lo fece attaccare in corridoio, così che tutti lo potessero vedere ed apprezzare… così che tutti potessero vedere ed apprezzare te. Io ogni giorno, alla ricreazione, uscivo di classe e, con il cartellone attaccato difronte ad essa, mi appoggiavo sull’uscio e passavo lì l’intera ricreazione a rileggermi quella bellissima dedica che ti avevo fatto. Passarono i mesi, ed arrivò l’ultimo giorno di scuola. Per poco non mi dimenticai di staccare il cartellone per portarmelo a casa. Pensandoci bene io, quel cartellone, non me lo sono mai goduto pienamente. Mi piacerebbe rivederlo un giorno.

L’estate stessa decisi di portalo a far vedere a papà Paolo, per fargli vedere che le persone ci pensano ancora a Marco, che la gente gli voleva bene davvero. Feci quel viaggio con mia nonna, che aveva subìto un intervento da poco, infatti mi dispiaceva portarmela dietro con me perché sapevo che stava abbastanza male. Partimmo da Riccione, dove ci stavamo facendo la vacanza. Prendemmo un autobus. L’autobus col numero 58. Scendemmo al capolinea, difronte alla chiesa, quanti ricordi mi vennero in mente. Mi vennero la lacrime agli occhi, ma feci finta di niente. Non sapevamo dove fosse casa tua quindi chiedemmo ad un passante. Ci disse tutto dritto alla seconda a destra, poi chiedete al fioraio. Facendo la strada ci siamo accorte che non era la seconda a sinistra ma la terza a sinistra. Arrivammo da questo fioraio, chiedemmo e ci disse queste precise parole:” Tutto dritto, dopo il ponticello sul fiumiciattolo a destra. La riconoscete: è la casa grigia.” Camminammo. Per molto. Ad un certo punto si fece mezzo giorno e ancora niente ponticello. Ci fermammo in una casa grigia, pensando fosse quella giusta, ma la proprietaria ci disse che dovevamo fare ancora circa 1 o 2 chilometri per arrivare. La nostra condizione era questa: due persone, un’anziana ed una bambina, su una strada lunga chilometri come se fosse un rettilineo, in salita, sotto il sole senza niente per coprirsi, in cerca di una casa di colore grigio quando tutte le case erano grigie. Mi sentii troppo in colpa per aver trascinato mia nonna in quella situazione con me. Arrivammo a metà di quel lungo rettilineo, dove c’era un ennesima casa grigia. Vidi un piccolo rigagnolo di acqua e un mini ponticello. Dissi a mia nonna di provare a suonare in quella casa, se non fosse stata neanche quella ce ne saremo andate. Suonammo il campanello, due e tre volte ma nessuno venne da noi. Eravamo sul punto di andarcene quando sentimmo la porta aprirsi. Mi girai e vidi il tuo babbo, Paolo. Non ci credevo. Ero proprio davanti a lui. Parlò solo nonna, io ero troppo emozionata. Gli disse che nonostante il tempo fosse passato, noi continuavamo a pensare a Marco. Gli mostrai il mio cartellone. Paolo lo prese per leggerlo. Ero entusiasta. Mi guardò e mi disse:” Dafne è bellissimo ma io non so l’inglese. Me lo potresti tradurre?” Con la voce tremante ho letto e tradotto tutto il testo. Ad ogni punto, lo ammetto, alzavo lo sguardo e guardavo il tuo babbo, per capire come stava e per cercare di rendermi conto che stava accadendo realmente. Paolo si mise a piangere come un bambino a circa metà testo, mia nonna lo seguì a ruota. Ero orgogliosa di me stessa in quel momento. Leggevo e sentivo i ricordi riaffiorarmi in mente. Tutti quei momenti belli tra sorpassi al limite del consentito e i momenti brutti tra quelle rovinose cadute. Era tutto racchiuso in quel cartellone e in quelle lacrime che vedevo scendere sul tenero viso di Paolo. Tradussi ogni singola parola fino al momento in cui Paolo, asciugandosi le lacrime, mi disse :”Dafne, è bellissimo! Mi hai fatto emozionare! Posso tenermelo, così che io possa appenderlo nell’associazione?” Avrei voluto dirgli di no e tenermelo tutto per me, ma appena vidi i suoi occhi, ancora con le lacrime, capii che la cosa migliore sarebbe stato dirgli di si, per renderlo felice, cosa che feci.

Pensando a te mi vengono in mente un sacco di ricordi di momenti bellissimi ma anche alcuni momenti non così belli. Mi ricordo di quella volta che volevi per forza entrare stretto ad una curva ed hai fatto cadere Pedrosa, che si ruppe la clavicola se non mi sbaglio. Quando poi tornò, Dani non ti voleva neanche rivolgere la parola da quanto fosse arrabbiato con te. Anni dopo disse che se ne pentì, perché la vita è troppo breve per avere nemici. Hai lasciato un segno pesante. Le dediche che le persone hanno fatto sono una cosa commovente: “Era come un fratello” dice Valentino Rossi; “Quello che è accaduto è terribile e mi sconvolge. Ciao Marco” dice Del Piero; “Ciao Marco. Grande campione. Persona strepitosa. Energia, entusiasmo, talento, allegria, passione. Ciao Sic.” dice Jovanotti; “Se n’è andato facendo una cosa che amava, in sella alla sua moto. E spero che anche adesso possa sfrecciare libero lassù.”dice Totti.

Tu, a differenza di molte altre persone, resterai per sempre vivo, vivo nei ricordi della gente che ti ha amato. Tu eri, sei e sarai sempre un guerriero, un gladiatore che, nonostante tutto, ha comunque vinto sulla morte. Ti sei portato via un pezzo del cuore di ognuno di noi. Mi piace ricordarti con il sorriso, quello caldo e affettuoso, così da far sorridere anche a me.

In dolce ricordo di un’altra leggenda del moto mondiale, Nicky Hayden. Resterete sempre nei nostri ricordi.

Io ero lì, sconcertata. Fissavo il televisore aspettando risposte, spiegazioni, rassicurazioni. Tu eri lì.