Intervista ad Alberto Cuevas

Roma, 17 gennaio 2017

intervista a cura di Morgana Assogna (III H – Virgilio)

Abbiamo intervistato Alberto Cuevas, nato in Cile nel 1947. Laureatosi in Italia, sociologo, è stato professore di Politiche migratorie in varie università italiane, dirigente di un’azienda pubblica, e direttore di riviste. Ha scritto molti libri (tutti editi da Edizioni Lavoro), tra cui l’enciclopedia in tre volumi, America Latina, e La globalizzazione asimmetrica che ha visto ben sei ristampe.

È in pensione da un anno e vive a Roma con sua moglie Rossana da cui ha avuto due figlie.

Lei è nato in Cile e vive in Italia. Questa è stata una sua libera scelta?

“Inizialmente sì. Sono venuto in Italia nel 1969, con una borsa di studio. Poi, mentre stavo per finire i miei studi, proprio l’11 settembre del 1973, in Cile c’è stato un colpo di stato. Fu un colpo di stato brutale, durissimo, che provocò la tortura e la morte a migliaia di cileni ed impedì il mio rientro in patria. Così ho scelto di impegnarmi nella solidarietà e nell’attività politica, anche se fuori dal mio Paese. Ho avuto il divieto di entrare in Cile fino al 1988 e solo dopo 17 anni di dittatura ho avuto la possibilità di tornare nel mio Paese”.

Lei è nato e ha vissuto in due Paesi fortemente cattolici e qui in Italia ha sposato una donna ebrea. Come ha vissuto la sua doppia condizione di straniero, nel Paese e nella comunità religiosa?

“Io mi sento un immigrato ante litteram. Quando sono arrivato qui era un periodo in cui gli immigrati venivano accolti molto bene, perché questo è sempre stato un Paese solidale e accogliente. Qui ho studiato, mi sono inserito, ho lavorato e mi sono sentito molto bene; l’Italia per me è stato proprio il mio secondo Paese.

E qui ho sposato mia moglie che ho conosciuto all’università. Non ho vissuto particolari problemi per inserirmi all’interno della comunità ebraica, o meglio all’interno degli ambienti che frequentava mia moglie e che poi, pian piano, abbiamo frequentato insieme. Non essendo ebreo è chiaro che all’inizio ho trovato qualche difficoltà che però si sono risolte tranquillamente con il tempo. Man mano mi sono avvicinato all’ebraismo, fino ad accogliere e ad assumere quasi tutti gli aspetti di questa religione. Con mia moglie abbiamo costruito un focolare ebraico, abbiamo due figlie ebree e questo è avvenuto per libera scelta”.

Pensa che dalla sua storia si possa imparare che più si uniscono radici diverse e più si sciolgono le differenze?

“Sì, io sono convinto che più si incontrano culture, esperienze, vissuti e più ricca si fa la vita. Io ricordo sempre un bellissimo libro, La raza cósmica, scritto nel 1900 da un grande studioso messicano che si chiamava José Vasconcelos. Lui scrisse che nel 2000 l’America Latina sarebbe stata un esempio di integrazione tra ‘razze’, tra culture, tra etnie e così via, e io credo che in un certo senso lui abbia avuto ragione. In America Latina c’è maggiore tolleranza di quella che noi osserviamo in Europa; anche lì ci sono immigrazioni interne, cominciano ad esserci problemi perché la globalizzazione ha creato e ingigantito tante difficoltà, però l’integrazione che c’è stata in questi ultimi cento anni in America Latina è stata incredibile e io osservo lì una grandissima ricchezza e anche una grande bellezza nelle persone, nei vissuti collettivi, al di là delle situazioni politiche o economiche che sono sempre soggette a cicli positivi e negativi. Lì, per me, c’è stata davvero un’evoluzione straordinaria”.

Viviamo in un mondo sempre più minacciato da forme di integralismo. Mi dice tre parole che secondo lei rappresentano tre campi in cui le giovani generazioni si dovrebbero impegnare per sperare in un futuro migliore?

“Io credo che la prima sia la parola pace. Ci sono troppe guerre, c’è troppa violenza e credo che il tema della pace sia essenziale oggi per noi. Qualcuno ha detto che viviamo la terza guerra mondiale e io penso che non sia esagerato: è una guerra diversa, ma è veramente una guerra diffusa che ha creato troppi danni in questi ultimi decenni.

La seconda parola credo sia uguaglianza. Abbiamo avuto la globalizzazione – che negli ultimi trent’anni ha molto accelerato -, l’integrazione tra i Paesi, i grandi cambiamenti nell’economia, ma abbiamo avuto anche la grave crisi economica che vive l’Europa, in particolare dal 2008 ad oggi. Questi elementi hanno provocato profonde disuguaglianze che sono portatrici di violenza e di grandi disagi per il mondo e in particolare per i giovani. Per questo credo che la parola uguaglianza sia molto importante.

La terza parola che mi viene in mente è giustizia. C’è troppa ingiustizia nel mondo. Ci sono troppa violenza e troppi crimini che rimangono impuniti. Verità e giustizia sono il fulcro che caratterizzò, per esempio, il ritorno nel mondo civile del Sud Africa, dopo le lotte e i decenni di galera che soffrì Nelson Mandela. Nel caso del ‘mio’ Cile, invece, ci sono ancora oltre tremila desaparecidos di cui non si sa ancora nulla. Cominciano a morire i loro genitori, i loro fratelli, le loro sorelle; gente che va via senza aver avuto la possibilità di ottenere né la verità né la giustizia. Anche per questo trovo che la giustizia sia sempre un elemento da cui non si può prescindere”.