Il cielo sopra Dublino

La patria della birra scura e forte, del trifoglio e dell’arpa, di folletti portafortuna e dispettosi, di stupende chiome rosse, di ritmi coinvolgenti, della musica celtica e folk, del verde meravigliosamente intenso. Paese della rivalità mai sopita con gli inglesi, l’Irlanda è proprio come l’avevamo sempre immaginata: case piccole e basse (tutte maledettamente uguali), un fazzoletto di giardino, porridge a colazione oppure in alternativa pancetta, fagioli e uova. Le auto che si guidano al “contrario”, le nuvole perenni, la fissa del tè.

Per noi mediterranei, amanti del sole e della buona cucina, il viaggio a Dublino è stato forse devastante da questo punto di vista. All’inizio non riuscivamo ad accettare il fatto di mangiare pasta con il ketchup, magari nello stesso piatto della carne, pur sapendo bene che “…non ci sono terre straniere, è solo chi viaggia lo straniero”. A Dublino tutti i giorni era una sfida: sveglia alle sette, lavati, preparati, scendi dalla tua famiglia ospitante e fai colazione, corri alla fermata dei bus. Una volta in centro, incontra tutti i tuoi compagni a “The Spire”, visita la città, fai shopping, passeggia. Fai ciò che vuoi, ma alle tredici e trenta in punto devi essere a scuola. Quattro ore di lezione in inglese e poi di corsa alla fermata. Prendi l’autobus per raggiungere il distretto in cui vivi, cerca attentamente la tua casa, perché non è sempre così scontato che la ritrovi al primo tentativo. Cena alle diciotto con la luce del giorno che ancora penetra dalle finestre. Nemmeno il tempo di riposarti qualche minuto, e via di nuovo in centro, ma attento! Alle dieci tutti a nanna.

Un’esperienza terribile, mi direte. Eppure io, come gli altri compagni che hanno partecipato a questo viaggio, ovvero i ragazzi della 3A, 3C, 3E e 3F, rifarei quest’esperienza altre mille volte. Perché? – continuerete a domandarmi. Non so dirlo. Forse perché, nonostante i momenti di frenetica agitazione siano stati dominanti rispetto a quelli di tranquillità, la consapevolezza di aver vissuto in quel momento un’esperienza indimenticabile con i tuoi amici è talmente elettrizzante da far passare in secondo piano tutto il resto

Da compagni di classe siamo diventati compagni d’avventure. I prof li abbiamo percepiti più come amici che come accompagnatori, disposti talvolta perfino a trasgredire qualche regola, pur di soddisfare qualche nostro piccolo capriccio. Abbiamo avuto la sensazione di essere tutti sulla stessa barca, e la nostra unica alternativa era di arrangiarci.

D’un tratto non ci siamo più sentiti protetti come a casa. La “sopravvivenza” dipendeva solamente dalla nostra capacità di adattamento. Molto spesso siamo andati incontro a peripezie dalle quali siamo usciti chiedendo aiuto ai passanti (in inglese, ovviamente), oppure grazie ai professori. La nostra pronuncia era a volte talmente approssimativa che Trapattoni a confronto sembrava un madre lingua laureato a Cambridge.  Nonostante le difficoltà siano state molte, le emozioni sono state di gran lunga superiori. Cesare Pavese ha scritto: «Viaggiare è una brutalità. Obbliga ad avere fiducia negli stranieri e a perdere di vista il comfort familiare della casa e degli amici. Ci si sente costantemente fuori equilibrio. Nulla è vostro, tranne le cose essenziali». Ecco, le cose essenziali: la fame di conoscenza e l’amicizia.

Melania Rocchio