Una vertigine di aria fresca: Vertigo

Esiste un assioma perfetto per i cinefili che, senza andare troppo in là con la variopinta fantasia, suona proprio così: andare al cinema è bello. Se poi il film in questione si intitola “La donna che visse due volte” (titolo originale “Vertigo”), allora potrei azzardare anche un superlativo: non solo bello, ma bellissimo. Per non dire “stra-bellissimo“.
Immaginatevi una storia di questo tipo: sullo sfondo di una San Francisco quasi spettrale, scarnificata, dai colori pastello e del tutto surreale di fine anni Cinquanta, si squaderna la vicenda a tinte forti di Scott Ferguson(per gli amici Scottie), detective privato a riposo, affetto da acrofobia (paura delle altezze) al quale un vecchio amico del college (Gavin Elster) affida amichevolmente il compito di pedinare la propria moglie Madeleine (Kim novak), piena zeppa di strane manie. La donna tende infatti a identificarsi con la bisnonna morta suicida di nome Carlotta Waldes e a mostrare un evidente sdoppiamento della personalità che la rende ingestibile. Tra una corsa in macchina e un tuffo nelle acque gelide della City by the Bay per salvarla da un tentato suicidio, Scottie non può fare proprio a meno di innamorarsi di lei. Eppure il passato disastroso incombe come la spada di Damocle: Madeleine sente irrimediabilmente di essere destinata a morire sulla scia della sua lontana parente e alla fine riesce nel suo intento martellante di suicidarsi, gettandosi da una torre di una missione vicino alla città. Scottie cade in depressione, almeno fino a quando non (ri)vede una fanciulla (Judy) somigliante in maniera impressionante alla sua amata Madeleine. Ma chi è in verità quella donna? È veramente un caso oppure Madeleine e Judy non sono altro che la stessa persona? La donna (Madeleine) ha forse vissuto realmente… due volte?
Questi gli interrogativi cocenti e struggenti che il film lascia in eredità al proprio pubblico e sui quali noi tutti siamo chiamati a riflettere. Su un thriller come “Vertigo”, d’altra parte, è impossibile non meditare: perché “Vertigo” è un thriller, sì, ma, a differenza dei tanti thriller hitckcockiani ben noti al mondo della cinefilia come “L’uomo che sapeva troppo” per dirne uno (dove al genere di thriller si accavalla quello più prosaico e frivolo di “commedia movimentata”), in “Vertigo” è la psicologia che trionfa (alla maniera di “Psycho”), o il flusso della coscienza Joyciano, o, per dirla come avrebbe voluto Hitchcock in questo film, trionfa la… “vertigine”. Che cosa è quel susseguirsi di immagini profondamente confusionarie e a colori accecanti e fortissimi nella sigla del film e in qualche altra memorabile scena di Scottie, se non la proiezione metaforica del nostro inconscio e delle nostre più profonde paure, delle nostre più profonde… manie? La vertigine, che è il motore della storia in quanto apre il film con la scena iniziale dell’inseguimento sui tetti e lo chiude con il doloroso superamento di essa da parte del protagonista, rappresenta la fine e l’inizio di ogni storia: una storia che, come una spirale, drammaticamente si riavvolge su se stessa. Sono tantissimi del resto, i riferimenti alla amletica spirale presenti nella pellicola: dall’acconciatura di Madeleine/Judy/Waldes, alla pupilla degli occhi dei protagonisti ripresi nella sigla, per poi passare ai cerchi dei ceppi degli alberi nella foresta di Muir Woods. Tante spirali, per una, nessuna, centomila storie. E una storia che, come una, nessuna, centomila spirali, si riavvolge inesorabilmente su se stessa. Pensateci bene: Madeline e Judy, due figure parallele, la proiezione comune del sogno d’amore di Scottie. Il destino dell’una si fonde con la vita presente dell’altra. Ma chi è Judy?Chi è Madeleine? Esistono entrambe? Forse. Muoiono sorprendentemente entrambe? Forse. Ma una cosa è certa: quello che rimane stampato indelebilmente nella nostra memoria, nella nostra mente, nel nostro cuore, è l’immagine formidabile di una sola ed unica donna. Quale? La donna che visse due volte.
Chiara Donati – Classe 4D