Gatta Cenerentola

Film d’animazione di Alessandro Rak, Gatta Cenerentola porta il folklore della favola dal passato al futuro, dal fiabesco alla crudezza della realtà, dal racconto secentesco – è basato infatti su Lo cunto de li cunti di Basile – all’attualità dello schermo.

Siamo in una Napoli futurista e disastrata: il ricco e magnanimo imprenditore Basile, omonimo del Giambattista autore de Lo cunto, fonda, nel porto napoletano, un Polo della Scienza e della Memoria, ovvero una ipotesi di rilancio cittadino che rimanda all’illusione di Bagnoli e che rimane, volutamente, un luogo dalla funzione incerta, simbolo di riqualificazione mancata. Il progetto fallisce a causa delle macchinazioni della seconda moglie di Basile e del suo amante Salvatore Lo Giusto, criminale che la sfrutta per avvicinare l’imprenditore e ucciderlo il giorno stesso delle nozze. Lo Giusto sfrutta le ricchezze così acquisite per fondare un impero commerciale imperniato sulla produzione di scarpe, ma che nasconde turpitudini criminali di stampo mafioso, mentre il Polo della Scienza e della Memoria va in rovina, diventando un locale notturno gestito dalla vedova e dalle sue precedenti figlie, che si riduce unicamente all’ex salone di gala; il resto della struttura diventa uno spettro popolato da spettri: tra le pareti metalliche in lento disfacimento, sforzate dalle onde e provate dall’usura, compaiono sporadicamente ologrammi di avvenimenti passati. Si tratta di ciò che rimane della principale invenzione di Basile, un metodo per rendere i ricordi visibili, ora lasciato a se stesso e autonomo nel suo manifestarsi. Questo è l’habitat di Mia, figlia di primo letto dell’imprenditore, bistrattata dalla matrigna e dalle sorellastre, da cui ha ricevuto il soprannome Gatta Cenerentola.

L’animazione spigolosa insegue un realismo che poco parrebbe conciliarsi con la tecnica scelta, ma che invece si rivela adattissimo mediatore tra il mondo del fantastico a cui, nell’immaginario collettivo, pertiene questa favola, e l’adulto realismo cui la sceneggiatura punta. Un doppiaggio accorto inserisce il dialetto napoletano in stridente contrasto con il mezzo del cartone animato, contribuendo a creare un effetto spaesante che ricalca lo stato d’animo della protagonista. Mia infatti è muta: non si sente il suo napoletano, perché non si sente affatto la sua voce, come a indicare la sopraffazione delle ingiustizie che la ragazza subisce, impotente, a cui si può sottrarre, col suo sfuggire animalesco e felino, nelle zone disabitate del Polo, sotto al livello del mare.
La tecnica si allontana molto sia dall’animazione classica che da quella 3D tradizionale, nel bene e nel male; una tendenza a richiamare la grafica di un videogioco dei primi Duemila avrebbe potuto fare scadere l’intero film, se non fosse per il taglio cinematografico e la costante ricerca fotografica di angolature e riprese sempre nuove, con movimenti di camera e utilizzo della profondità di campo che riscattano questa tendenza, e creano un senso di fluidità, talvolta esasperato, forse, ma che garantisce al film di non risultare piatto e ripetitivo. Un orizzonte sempre inclinato e un asse sempre impari creano un senso di squilibrio che ricalca le storture di una Napoli apparentemente senza speranza, sfondo lontano eppure di una presenza costante. Questi squilibri contribuiscono alla varietà visiva del film, che talvolta rischia di sfociare in forzata ricercatezza, ma di cui si apprezza molto la costante ricerca di novità a livello visivo – si pensi alla scena dell’omicidio dell’armatore, raccontata attraverso una serie di scatti fotografici, la cui staticità contrasta con il dinamismo del soggetto raccontato.

I contorni spezzati e lo spiccato senso del volume, costruito grazie a una studiata sovrapposizione di abbozzi di colore, creano un senso di fluidità che si adatta felinamente al movimento dei corpi, e che in particolare  fa risaltare il subdolo gesticolare napoletano dell’antagonista, un paroliere incantatore che si serve del suo potere persuasorio per meschini raggiri.

Di questo approccio grafico che concilia così bene scioltezza e angolosa asprezza risente però il contatto tra gli oggetti, poiché i corpi risultano talvolta duri e inconciliabili, e le parti paiono toccarsi appena. Quando Gemito, guardia del corpo di Basile, tiene per mano Mia, il gesto non riassume appieno tutta la dolcezza della scena a causa della mancanza di morbidezza delle mani dei due.

I contorni sono spesso evidenziati da una luce radente, invadente, irreale: filatrata dall’acqua del porto partenopeo, la “golden hour” si impone, mentre cerchi di luce animati ricalcano delicatamente gli effetti ottici reali. Riflessi luminosi si rincorrono lungo tutte le inquadrature, variegandole, e si rispecchiano, dagli occhiali di Salvatore alle pareti d’acciaio del Polo.

Dal punto di vista della trama, però, la storia non è perfettamente coerente: gli ologrammi, che inizialmente si prospettano come interessante soluzione narrativa, finiscono per costituire un espediente che manca di coerenza interna. Per questo e altri passaggi poco fluidi, la sceneggiatura risulta poco strutturata; ma, nonostante ciò, la tenuta narrativa è sempre forte, e, grazie alla tecnica, il risultato è un film altamente suggestivo, dal taglio cinematografico spiccato e dall’atmosfera caratteristica e ricercata.

 

Di Bianca Delpiano

 

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Fonte immagine: comingsoon.it