L’autostoppista – Racconto

Accadde il giorno di Natale di diversi anni fa.
Da alcuni mesi m’ero trasferito in un’altra città a causa del lavoro, e non conoscevo molte persone: certo, capitava che chiacchierassi con qualche collega, ma non avevo nessun contatto stabile. D’altro canto, ero appena riuscito a dimostrare di essere indipendente dai miei genitori e dalla mia famiglia, e anche se non ce l’avevo per nulla con loro, mi avrebbe scocciato tornare lì per festeggiare – si sa, quando si è giovani a volte ci si tiene a dimostrare certe cose. Quando avvertii che non avrei passato le feste con loro, comunque, furono piuttosto comprensivi.
Fatto sta che non avevo fatto grandi programmi per quel giorno. Bisogna dire anche, in verità, che non sono mai stato un tipo festivo, tuttavia mi s’era insinuata in testa l’idea di farmi una girata da qualche parte per quel giorno per festeggiare, diciamo, per conto mio. Non sapevo con esattezza dove sarei andato, ma soppesavo dentro di me l’idea di un viaggio sulla strada senza una meta ben definita, in cui avrei potuto decidere tutto lì per lì; e quell’idea mi piacque.
Ma arriviamo al dunque: la mattina di Natale mi svegliai di buona mattina, feci ben attenzione a vestirmi pesante e a mettere qualcosa di corposo sotto i denti, dopodiché mi imbarcai in quella gita che già avevo abbondantemente pregustato la sera prima mentre mi addormentavo – forse l’avevo pure sognata, chi lo sa. Ricordo anche di aver fischiettato le canzoni natalizie che passavano alla radio. Nonostante tutte queste previsioni, tuttavia, non avevo la benché minima idea di ciò che mi aspettava.
Lo vidi appena prima del punto in cui le grigie e fredde vie suburbane convergono e si gettano nella superstrada. Qualche volta ci passo ancora e ripenso a quel giorno; mai una volta ci ho rivisto qualcuno, in quella via sperduta. Ad ogni modo, quel freddo mattino natalizio lui se ne stava lì, in piedi, coperto da una giubba sdrucita e con il pollice fieramente alzato. Aveva un che di dignitoso nel portamento, se ne stava impettito e fiero come se fosse un nobiluomo d’altri tempi, sfoggiando una folta barba dall’aspetto (chissà come) molto curato.
In un attimo riflettei che non avevo nessun impegno in particolare neppure io, e che non c’era davvero un motivo valido per non dargli un passaggio. Accostai e abbassai il finestrino del passeggero. “In che direzione devi andare?” chiesi.
“Salve” mi disse. Aveva una voce calda e profonda, la voce che ogni bambino avrebbe voluto per narrargli le fiabe prima di andare a dormire. “Mi basta andare un po’ fuori città, amico, non ho grandi idee. Vedrò quel che mi capita più in là”.
Stavo quasi per obiettare a causa del clima rigido di quelle campagne, ma il suo sguardo era fermo e quella sembrava una decisione ben ponderata. “Salta su. Allora!” gli feci, senza esitare ulteriormente. “Pensavo di andare a fare un picnic da qualche parte, e se ti va puoi unirti. In ogni caso, per un po’ posso darti uno strappo.”
Lui intanto era entrato e s’era richiuso dietro lo sportello, e si stava sfregando le mani per apprezzare al meglio il calduccio dell’abitacolo. Mi guardò, e ricordo di aver contato i secondi prima che mi desse una risposta. Ne passarono sette. “Ci sto!” sentenziò infine “Tra l’altro, non mi capitava da anni di fare un picnic. L’ultima volta, ero con mia moglie”.
Da lì in poi, grazie a un paio di mie domande non troppo indiscrete, iniziò a raccontarmi la storia della sua vita – e devo dire che non feci alcunché per interromperlo o cambiare argomento, dato che era una gran bella storia, e lui, peraltro, era un ottimo narratore. Aveva uno stile molto gergale e colorito, ma chiaro e pulito; le poche volte in cui qualche particolare mi rimaneva oscuro, lo incalzavo con una domanda, e lui la infilava con maestria nel discorso, senza perderne il filo e senza che la narrazione svoltasse troppo bruscamente per soddisfare la mia curiosità.
Non seppi mai il suo vero nome: apparteneva al passato, mi disse, e aggiunse che se proprio ci tenevo, potevo chiamarlo lo Scozzese, dato che il suo soprannome in gioventù era stato quello. Era stato un pugile abbastanza famoso nella sua città, ma poi s’era innamorato di una donna che aveva voluto che si trovasse un lavoro, per cui aveva appeso i guantoni al chiodo e s’era messo a sgobbare in un’officina. I due si erano sposati e avevano avuto una figlia, ma non molto dopo (l’espressione che usò fu “il tempo di gironzolare per tre o quattro bar”) lei l’aveva lasciato per un altro e si era presa con sé la figlia, ancora piccolissima.
“Mi dispiace” gli dissi a quel punto.
“Non importa, si parla di molto tempo fa” rispose, e riattaccò con la narrazione.
A quel punto, lui sapeva che non ce l’avrebbe fatta a continuare a vivere nello stesso appartamento, a lavorare nello stesso posto e così via, perciò aveva mollato tutto e s’era messo a girovagare senza una meta. Ormai erano diversi anni che conduceva questa esistenza, mi spiegò, ma non se ne era mai stancato perché conoscere gente nuova lo aiutava a farlo sentire ancora vivo. Mi disse di aver incontrato una ex violoncellista che aveva suonato, decenni prima, in una celebre filarmonica, che gli aveva detto che il segreto stava semplicemente nell’avere il senso del ritmo; oppure un venditore porta a porta di incenso; o ancora un politico che aveva avuto l’onore di fare da ambasciatore in molte nazioni esotiche, ed era un’autentica miniera di aneddoti su quelle bizzarre usanze. La cosa che mi colpì di questo suo ininterrotto flusso di parole e frasi fu l’entusiasmo con cui raccontava avventure e disavventure: mentre lo faceva, si dimenticava completamente di tutto ciò che gli era accaduto prima, e l’episodio in questione si gravava di soddisfacente compiutezza e organicità, come se fosse possibile spiegare il senso della vita semplicemente con quella determinata vicenda.
A un certo punto lui si acquietò, finalmente, e il rombo del motore rimase l’unico rumore nell’abitacolo. Fu forse proprio quel rollio a suggerirmi la folle idea che in quel momento mi balenò in mente. “Ehi, Scozzese” gli feci. Le parole uscirono magicamente una dietro l’altra come in una filastrocca; da allora non mi ricapitò mai più. “Che ne diresti se ce ne andassimo a giro insieme per un po’? Ora che ho sentito quello che ti è capitato a viaggiare, mi sembra di non avere mai vissuto davvero.”
Lui restò zitto per qualche istante. “Ma non hai un lavoro, una casa?”
“È vero” gli concessi, “ma adesso mi sembrano così monotoni. È la vita di qualcun altro, quella.”
“D’accordo.” Fece spallucce. “Per me va bene.”
Fu quello l’inizio del mio viaggio sulla strada insieme allo Scozzese.
Lorenzo Paciotti
Liceo Classico Galileo di Firenze – Classe 5E