Natale tra le stelle – Racconto

Mancavano ancora molti giorni prima di Natale. Ma questo a me e a Wally non importava. Per i bambini, sì, lo avremmo fatto per Suzanne e per Michael. Magari in qualche modo ci avrebbero sentito, chissà. Hanno una magia tutta loro, i bambini. Guardai negli occhi il mio compagno e, dopo solo un leggero segno della testa, incominciai a intonarla….

– Dai Eloise, muoviti! Si gela qua fuori, voglio entrare il prima possibile in quel bar! –
– Calmati Eve, siamo quasi arrivate -.
Era scoppiata una tremenda tempesta di neve, lì, in quel piccolo quartiere dell’Oklahoma. “Un bel bianco Natale, proprio come quello dei film!” avrebbe esclamato una signora sulla sessantina, in quel bar sull’angolo in cui stavamo per entrare. La cameriera avrebbe annuito con la testa, porgendole il piattino di biscotti al burro e una tazza di tè, come aveva ordinato. La signora avrebbe poi sorriso, un sorriso stanco, e le rughe sulla sua faccia si sarebbero distese per un attimo soltanto, ringiovanendola di qualche anno.
Tutte le volte era sempre la stessa storia: arrivava il 24 dicembre e ancora non sapevo cosa scrivere per quella dannata recita. La storia della vecchietta forse sarebbe piaciuta a Brian, magari avrei aggiunto una scena romantica, tanto per vedere la sua buffa faccetta contorcersi per le smorfie.
Brian è il figlio di Eve, mia sorella. Ogni anno passiamo il Natale insieme, la sua famiglia e io: a trentaquattro anni non mi sono ancora costruita niente nella vita, se non la carriera da giornalista. E ogni anno, alla vigilia di Natale, mentre Eve e suo marito si dilettano in cucina io intrattengo Brian nella sua cameretta, tirando su uno spettacolino insieme a Moji, il suo cagnolino giocattolo. Ma, come è ovvio, lui non può aiutarmi e quindi mi ritrovo sempre da sola di fronte a quella perfida pagina bianca, che mi toglie ogni ispirazione: è per questo che mi riduco sempre all’ultimo anche per consegnare gli articoli al giornale.
– Eloise! –
Tirai un sospiro di rassegnazione e guardai l’aria uscire dalla mia bocca e trasformarsi in vapore acqueo. La seguii, senza dire una parola. Aprii la porta del bar e mi girai a sinistra, pronta per salutare la mia vecchietta. Ma non c’era nessuno lì. Certo, me lo sarei dovuta immaginare, eppure il sapore amaro della delusione persisteva ancora nella mia bocca.
– Ma cosa sta succedendo? – mi domandò mia sorella, riportandomi alla realtà. Alzai la testa e mi osservai un po’ intorno. Non era solo il posto della mia signora anziana ad essere vuoto, ma anche tutti gli altri. Solo il bancone era accerchiato da una folle in trepidante ascolto di una voce un po’ gracchiante che si stava preparando a raccontare chissà cosa. Presi Eve per un braccio e la trascinai in mezzo a quella calca per avvicinarmi di più al centro, dove tutti gli sguardi convergevano su un’unica persona. Era un signore molto in là con gli anni, probabilmente sulla novantina. Aveva ormai perso tutti i capelli e sembrava reggersi a malapena su se stesso, eppure se ne stava lì seduto in mezzo a una marea di sconosciuti, con un sorriso smagliante sul volto. Mi guardò, come stupito. Del resto gli ero spuntata davanti all’improvviso. Sorrise ancora di più e poi, come se niente fosse cambiato, riprese il suo discorso:
– Correva l’anno 1965. Ero ancora un giovincello che amava l’avventura e che si poteva ancora permettere di provarne l’adrenalina. Avevo sempre sognato di andare nello spazio e finalmente ci ero riuscito, io insieme al mio amico Wally. Lui ci era già stato, ma io… oh, sembravo un bambino che si ritrova in un mondo incantato, quello che sempre si era immaginato mentre la mamma gli raccontava le favole della buonanotte! Appena fummo lanciati lassù verso le stelle, le mie stelle, mi affacciai al finestrino della cabina di pilotaggio. Era tutto così maledettamente… infinito. Non c’era l’orizzonte, no, e nemmeno una superficie. C’eravamo noi, la Luna, l’oscurità, il vuoto e… la Terra, laggiù, sotto di noi. Ero incredulo di essere di fronte a tanta maestosità, avrei voluto rimanerci per sempre. A un certo punto il mio compagno si avvicinò a me, mi indicò un punto indistinto degli Stati Uniti e mi chiese se avessi una famiglia. E gli parlai di mio figlio Michael. Ci credete che poi lui e Suzanne, la figlia di Walter, si sono sposati? Guardateli – disse mostrandoci una foto che aveva appena estratto dal suo portafoglio un po’ logoro – questi sono loro due il giorno del loro matrimonio! A parte questo, gli parlai di tutti nostri pomeriggi passati insieme, delle partite di baseball, delle gite al laghetto vicino casa nostra e anche delle serate solo uomini che facevamo quando mia moglie tornava tardi da lavoro. E mentre glielo raccontavo dovevo proprio avere una faccia malinconica oppure tremendamente entusiasta, tanto che mi domandò se mi mancasse. Certo che mi mancava, gli risposi, soprattutto prenderlo fra le mie braccia la sera prima di andare a letto e raccontargli le storie di mostri e alieni che combattevano nei meandri dell’Universo. Nel dirlo gesticolai come facevo solitamente con Michael e dopo essermene reso conto scoppiai a ridere, chiedendo scusa a Wally. Ma anche lui rise, confessando che faceva la stessa identica cosa con sua figlia. Eravamo soli e tristi lassù, lontani dal mondo. Mi era piaciuto quell’attimo di risata, era un modo innocente per distrarci da tutto. Volsi il mio sguardo di nuovo fuori dal finestrino e questa volta fui io a indicare un punto indistinto, sulla Luna – e così dicendo la indicò anche a noi, quella piccola sfera bianca che aveva fatto appena capolino da dietro le case in fondo alla strada –. Si racconta, e questo lo dissi anche al mio amico, che una navicella spaziale piena di extraterrestri miliardi di anni fa fosse stata risucchiata da un buco nero poco dopo l’esplosione di una supernova. Non si sa bene cosa fosse successo nel lasso di tempo che restarono all’interno di esso, ma quel che è certo è che si trasformarono. Non fraintendetemi, il loro aspetto rimase lo stesso, fatta eccezione per gli occhi. Gli occhi divennero neri, così freddi da farti rabbrividire con un solo sguardo. E nera diventò la loro anima, assetata di potere. Una volta tornati indietro si misero alla ricerca di nuovi pianeti da conquistare, depredare, distruggere. E fu in quel momento – ora il signore mi guardava dritto negli occhi – che la vidi. La vidi lì, davanti alla Luna. Era una navicella spaziale enorme che stava venendo dritta proprio verso di noi. Io e Wally ci guardammo negli occhi, terrorizzati. Insomma, non eravamo stati preparati per una cosa del genere! Già immaginavamo truppe di alieni rivestiti di chissà quali congegni futuristici che prendevano d’assalto la nostra piccola cabina, prima di dirigersi verso la Terra. Cercai di contattare la Nasa, di mandare un messaggio d’avvertimento. Ma fu inutile. O almeno lo fu il primo tentativo. Poco dopo il mio compagno ci riprovò e venimmo messi in contatto non solo con il centro operativo ma anche con un’altra navicella che come noi stava orbitando intorno al nostro pianeta. Demmo il segnale, speranzosi di poter parlare un’ultima volta anche con le nostre famiglie – a questo punto il signore chinò la testa – ma non ne avemmo motivo. Il pilota dell’altra navicella iniziò a imprecare contro di noi.
“Cristo, Thomas!” diceva “Ma cosa ti passa per la testa? Extraterrestri? Ma che cosa ti prende?”
Io provai a giustificarmi, a dire che era soltanto uno scherzo innocente: “Siamo noi, quelli della 7. Siamo rimasti senza carburante, dovete invertire le vostra cabina verso la nostra” e poi persi il segnale. Avevo commesso una delle idiozie più grandi della mia vita, stavo per mandare all’aria un’intera missione solo per una stupida favola per bambini. Non ero con Michael, ero nello spazio. E non potevo divertirmi come con Michael, nello spazio. Pieni di vergogna, io e Wally fissammo il vuoto di fronte a noi, rimanendo in silenzio. Quanto tempo poi fosse passato non lo sapevamo di preciso. O forse non ci interessava più saperlo. Guardai per la terza volta fuori dal finestrino, solo per un secondo, e guardai la Terra, sotto di noi. E iniziò a mancarmi l’aria, la cabina cominciava a farsi troppo piccola per due persone. Mi sentivo letteralmente intrappolato nello spazio, abbastanza vicino al mio pianeta da avvertirne l’attrazione ma non abbastanza per sentirmi al sicuro. Mestamente guardai il mio compagno. Lovell, il pilota dell’altra navicella, era pronto per l’aggancio. Mi alzai, mantenendo il silenzio, e mi preparai alla manovra. A spezzare il silenzio fu incredibilmente Lovell. E come chi è in imbarazzo inizia a parlare del tempo che, ovviamente, lassù non c’era, Lovell chiese: “Com’è la vista?”. Io risposi: “Pessima. Infatti se guardo dalla finestra posso vedere le vostre brutte facce”. Scoppiammo tutti a ridere, io per primo e in preda a quel barlume di euforia ricordai a tutti che era il 16 dicembre. E il mio compagno, come se avesse inteso cosa volessi sottintendere con quella frase, disse: “Perché non cantiamo qualcosa di natalizio insieme? Magari Jingle Bells! Dai Tommy, fallo per tuo figlio! Fallo per noi! Chissà se ci potrà mai ricapitare”. Mancavano ancora molti giorni prima di Natale. Ma questo a me e a Wally non importava. Per i bambini, sì, lo avremmo fatto per Suzanne e per Michael. Magari in qualche modo ci avrebbero sentito, chissà. Hanno una magia tutta loro, i bambini. Guardai negli occhi il mio compagno e, dopo solo un leggero segno della testa, incominciai a intonarla: “Jingle bells, jingle bells, jingle all the way. Oh, what fun it is to ride in a one horse open sleigh…”

Quando finì di raccontare la sua storia, la folla a poco a poco scemò, finché non rimanemmo solo io e mia sorella. Mentre Eve si avvicinava al bancone del bar per chiedere una cioccolata calda, io mi rivolsi all’anziano signore e in preda alla curiosità chiesi:
– Ma è tutto vero, quello che ha raccontato? –
-Certo signorina, fino all’ultima parola – mi rispose con far gentile e il suo sorriso smagliante.
– Ma… ma come? – chiesi allibita.
-Astronauta Thomas Stafford, in congedo dal 1975. È Natale signorina, e Walter Schirra mi manca tanto. È morto nel 2007, è passato così tanto tempo. Mi piace ricordarlo così, come l’uomo con cui ho passato un Natale letteralmente spaziale! Sa, è stata anche la mia prima missione, la Gemini 6. Ed è stato anche un miracolo arrivare lassù fra le stelle con quella: è andata bene solo al terzo lancio! Gesù, avremmo anche potuto restarci secchi, mi creda – e così dicendo se ne uscì dal bar, fischiettando.
– Oh, signore, il mio, di miracolo di Natale, è proprio lei! Finalmente ho una storia… – mormorai tra me e me.
Quella stessa sera, mentre mia sorella Eve e suo marito erano in cucina, io presi Brain in braccio e lo misi a sedere sul suo letto. Poi presi Moji e lo sistemai di fianco a me.
– Questa, tesoro mio, è la storia di come due grandi astronauti sventarono un attacco alieno e salvarono la Terra, proprio il giorno di Natale… –
Ginevra Comanducci
Liceo Classico Galileo di Firenze – Classe 4C