“Maus”: il capolavoro di Art Spiegelmann

Come riesce un fumetto a raccontare la carneficina degli ebrei perpetrata durante la Seconda Guerra Mondiale? Sembra un paradosso, una follia, invece “Maus”, magistralmente realizzato dalla penna di Art Spiegelman, ne è un esempio lampante.

L’autore è solo uno dei tanti che ha dato voce a un periodo storico innominabile, che rievoca alla memoria fatti orribili e spaventosi.

Anna Frank, Primo Levi, Piera Sonnino sono tutti uomini e donne che hanno avuto il coraggio di parlare, di urlare e raccontare a gran voce la loro storia, fatta di sofferenza, lacrime e sangue. Quello di Art Spiegelman è uno scritto senza uguali, di una verità unica, che lo rende diverso da tutti gli altri. Le poche parole impresse in modo sgrammaticato su qualche pagina bianca arrivano dritte al cuore del lettore, come una spada che trafigge, con la fredda lama, il petto.

Il padre dell’autore, Vladek , è stato uno dei pochi sopravvissuti di quegli anni carichi di fuoco, che divampava in ogni angolo, in ogni luogo, in ogni città sterminata dai nazisti. E’ stato miracolato, come era predestinato dal numero, considerato fortunato, che gli avevano marchiato sulla pelle, impresso fino al giorno della sua morte. Sicuramente rimarrà sempre il ricordo delle vittime, il ricordo delle città scomparse, che non sprofonda nell’oblio, perchè diventa nutrimento e linfa .

Vladek Spiegelman è riuscito a farsi coraggio e a non demordere, nonostante tutti i morti che vedeva affondare nel fango davanti ai suoi occhi, nonostante tutti i prigionieri che cadevano come un corpo morto cade. Non è volato via, non ha fatto la fine delle foglie che si staccano dagli alberi nel periodo autunnale, non è stato schiacciato, oppresso dalla vita e soffocato dal gas.

E’ una storia ricca di emozioni, di terrore, angoscia, paura e solitudine, tuttavia molto in fondo c’è anche la speranza, un bene da conservare religiosamente, a cui aggrapparsi, cui reggersi per farsi forza.

A volte non facciamo caso alle piccole cose, che non bisogna dare per scontate. Infatti è da sottolineare che i deportati erano privati di tutto, della libertà, ma anche del diritto di scegliere (κρίνω), decidere dove andare, cosa dire o fare, non sapevano se il giorno dopo sarebbero stati ancora lì, burattini strappati alla loro quotidianità.

Gli ebrei sono stati paragonati da Spiegelman a dei topi, intrappolati, senza più un cervello, una testa che è destinata solo a impazzire. I nazisti, invece, sono assimilati ai gatti, in cerca di cibo e che mirano solo a rincorrere i roditori per poi sbranarli.

Una vignetta molto commovente, che induce il lettore a riflettere, è quella in cui il figlio di Vladek, Richieu, dando l’ultimo abbraccio al padre prima di morire e non vederlo mai più, afferma:”Snif i bottoni, i tuoi bottoni di metallo, papi……SONO FREDDI!”.Una scena simile è stata descritta nell’Iliade di Omero, quando Ettore stringe al petto il suo bambino Astianatte che, pero’, si mette a piangere, perchè spaventato dall’elmo che porta in testa. Anche in questo caso i due non si vedranno mai più, scomparsi in una nube di sangue e polvere.

La domanda da porsi è: “Ricapiterà?” Magari in futuro un altro scrittore narrerà la medesima scena? La risposta sta in ognuno di noi, bisogna guardarci dentro e capire chi siamo e chi vogliamo diventare, cercare di prendere atto e cambiare, come si può, il mondo, anche se è un’impresa dura.

Quelle di Art Spiegelman possono sembrare solo parole, ma rimarranno impresse nei secoli, lette e rilette mille volte da persone di regioni, stati, lingue e culture diverse.

Bisogna accennare anche ai simboli che l’uomo ha trasformato in armi distruttive; la stella di Davide, emblema della religione ebraica, è diventata un oggetto dal quale tenersi lontano, chi la portava sul petto doveva essere emarginato ed escluso dalla comunità.

Non si può non citare la svastica, quattro linee storte che ci fanno pensare ai nazisti, al male, al potere assoluto, che si staglia sulla copertina del libro con stampata la faccia provocatoria di un gatto che rappresenta Hitler e la parola “Maus” che cola come il sangue di una ferita mortale.

Un altro aspetto che colpisce è sicuramente quello riguardante la famiglia. Questa, purtroppo, viene messa in crisi durante la guerra; è da sottolineare che Art, a un certo punto, chiede al padre come mai un parente abbia deciso di non aiutarlo nel momento del bisogno. E’ assurdo pensare che lo abbia pugnalato alle spalle, carne della sua carne, sangue del suo sangue, ma, d’altronde, non tutti gli uomini sono uguali, alcuni sono più fragili e, nella condizione psicologica in cui erano, possono aver reagito in modi diversi.

Maus racconta una storia tragica in modo splendido che, come afferma Umberto Eco: “Ti prende e non ti lascia più. Si è presi da un ritmo lento e incantatorio, e quando il libro è finito, si attende il seguito con la disperata nostalgia di essere stati esclusi da un universo magico”.

 

Chiara Caputi