Ad occhi chiusi – Racconto

Il nulla. Questo era quello che vedevo: il nulla. La vista era un senso che sfortunatamente mi era sempre venuto a mancare, anzi non proprio da sempre, c’erano stati due o tre anni in cui avevo visto, e poi mai più. Sapevo quindi cos’era il mondo, anche se non distinguevo esattamente tutto ciò che lo caratterizzava, ma le mie conoscenze erano ovviamente limitate. Fin dalla nascita ho sempre saputo di vivere in un mondo malato: mi avevano detto che le temperature erano eccessivamente alte, che l’aria era troppo inquinata, e questo portava a vari effetti di cui avevo sentito parlare infinite volte. Mi avevano detto che presto i mari avrebbero raggiunto un livello troppo alto, e che le nostre case sarebbero state sommerse; che non ci sarebbero stati più alberi e che gli animali si sarebbero via via estinti; che i rifiuti avrebbero ricoperto il mondo, insomma, mi avevano svelato fin da subito che prima o poi sarebbe tutto finito.
Mi hanno raccontato che stetti venti anni in un ospedale specializzato, venti anni in cui non cambiai di una virgola. In quei venti anni un gruppo di scienziati aveva lavorato sulla possibilità di restituirmi la vista e, se ci fossero riusciti, io sarei diventato il primo non vedente al mondo a riacquistare la vista, nonostante la mia patologia fosse incurabile. Il loro lavoro fu lungo ma il solo pensiero di poter vedere di nuovo mi rasserenava. Cercai quindi di immaginare con la mente tutto ciò che un tempo avevo visto. “Vidi” un mare limpido cristallino incresparsi, mosso dal soffio vivido del vento. Il mare formava allora curve, onde, che si infrangevano negli scogli e potevo sentire questo suono rimbombante fin da casa. Riuscivo a sentire il sole bruciante sulla mia pelle, anche se la potenza di questo sole non poteva scalfire neanche un po’ l’iride dei miei occhi appena socchiusi. Sentivo improvvisamente troppo calore addosso, e allora mi spostavo più lontana dal suono del mare, nella pineta. I miei occhi non potevano percepire il cambiamento, ma sapevo che in fondo al percorso ombroso, sotto le fronde degli alberi, un’aria fresca e aromatica avrebbe accarezzato le mie palpebre. Poi pensavo agli alberi possenti che dominavano la pineta, e alla miriade di animali che ci abitavano. Da bambina cercavo sempre di seguire con gli occhi le parti di rami percorse da quei piccoli e scattanti esseri che tanto mi interessavano: gli scoiattoli. Ce n’erano tanti lassù di questi animaletti e probabilmente vivevano anche bene, grazie all’equilibrio della natura che governava l’intera pineta. Feci per aprire il mio libro (scrivo mio perché è un libro fatto di parole che solo io posso capire), quando all’improvviso sentii con la mano una punta bagnata sulla carta. Sollevai la mano al cielo ed era come pensavo: pioveva. Avevo “visto” tutto ciò che avrei desiderato vedere veramente, un giorno. Mi alzai da terra e mi misi in cammino verso casa, in una decina di minuti scarsi sarei arrivata a destinazione.
Luce. Fu luce tutto quel che vidi appena spalancai gli occhi, quei per nulla consumati occhi che avevo tenuto serrati o socchiusi per tutto quel tempo. La luce entrava abbagliante dalla finestra della camera d’ospedale, mi accolsero i dottori e mi dissero che la loro operazione, alla quale avevano lavorato per quasi vent’anni, era riuscita miracolosamente. Uscita da quel posto mi avventurai entusiasta nel mondo, quel mondo che adesso potevo vedere con i miei occhi. Appena uscii dall’ospedale fui sopraffatta da un caldo afoso ma umido allo stesso tempo, eppure doveva essere metà febbraio, da quello che mi avevano detto. Feci tre passi, e iniziò a piovere, ma era una pioggia che mi ungeva le mani, come un olio. Piogge acide le avevano chiamate, quando ancora non vedevo. Avevano detto che difficilmente ci sarebbero state, eppure eccole lì, che scorrevano lungo le mie mani. Ogni volta che mettevo un piede per terra dovevo scalciare l’ennesima bottiglia di plastica o una cartaccia di giornale o dépliants gettati via. Era tutto sporco, rifiuti ovunque, il suolo sembrava una discarica. La pioggia terminò e uscì di nuovo il sole, un sole abbagliante troppo ambiguo pensando che non era nemmeno primavera. Cercai un albero sotto al quale rifugiarmi, i miei occhi non riuscivano a reggere quel calore lancinante, dopo così tanti anni di solo buio. Ma non trovai nessuna ombra che potesse accarezzare le mie vivide palpebre: sollevai la testa e non c’era nessun albero che si stagliava nel cielo, neanche uno. Avevano predetto anche questo, un tempo, eppure non ci volevo credere. Tutto quello che avevo sognato, immaginato con la mente di vedere un giorno, adesso non esisteva più, tutto era stato distrutto dall’uomo e la natura era caduta nella degenerazione più totale.
Un enorme strato di tristezza mi travolse, mille pensieri mi affollavano la mente tanto che non riuscii più a ragionare lucidamente. Pensare a ciò che potevano aver fatto le generazioni prima di me per rendere questo nostro mondo un simile inferno mi sconvolgeva e mille risposte mi affioravano nella testa, ma nessuna era giustificata. Io prima d’ora non avevo mai veduto, questo è vero, ma sono certo che prima il mondo non era così, tutto questo inquinamento non c’era e il caldo travolgente non incombeva sul nostro pianeta. Dovevamo aver fatto qualcosa di terribile e per rimediare forse era ormai troppo tardi… dovevamo fare qualcosa, imparare a stare al mondo in un modo totalmente diverso, imparare a guardare, forse? Mi resi presto conto che forse solo io potevo notare l’enorme cambiamento avvenuto in questi vent’anni poiché io non avevo mai visto il mondo, e ora che me lo ritrovavo davanti, devastato, mi aveva colpito. Chi invece aveva sempre potuto vedere il mondo era forse talmente abituato a tutta questa devastante degenerazione da riuscire a ritenerla normale, accettabile, così, senza neanche accorgersene. C’era una domanda che però ancora mi turbava più di tutte le altre: cosa avevo realmente da guardare oltre ad un mondo sfasciato, che non aveva più un paesaggio e la cui temperatura era troppo anomala per la vita umana? Sapevo di stare per compiere un atto scorretto e decisamente troppo indifferente per la persona che un tempo ero ma ciò che vedevo mi stava devastando… Sentivo di non avere più scelta: chiusi gli occhi. In fondo avevo sempre vissuto senza la vista quindi privarmene nuovamente alla fine era qualcosa di quasi automatico. Decisi di continuare la mia vita come avevo sempre fatto fino a vent’anni prima, ma con un’unica differenza, adesso “vedevo” le cose differentemente perché avevo visto qualcosa che mi aveva sconvolta e ora sapevo come eliminarlo, dovevo solo dare il mio piccolo ma essenziale contributo per farlo, ma a occhi chiusi, per non impressionarmi.
Emma Boschi / Liceo Classico Galileo di Firenze