Ci rivedremo ancora – Racconto

Si svegliò la mattina presto, scossa da brividi. Aveva fatto ancora una volta quel sogno. Di nuovo e ancora di nuovo. Non riusciva a togliersi dalla testa la sua immagine: il suo bel viso gentile che dalla prima volta che lo vide la rapì; gli occhi castani, i capelli castani scuri come gli alberi del loro giardino; la barba rossiccia tenuta corta e leggermente ispida perfettamente aderente sul suo mento; gli occhiali che ricadevano sul naso lievemente incurvato. Se lo ricordava perfettamente e almeno questo la risollevava. Non l’aveva perso del tutto, era ancora lì’: nei suoi ricordi. Si alzò e si getto un monocromatico scialle rosa tenue sulle spalle, mentre sotto aveva un pigiama bianco con tanti orsacchiotti, poi andò in cucina e si preparò la “dose” che ormai mangiava da anni. Consisteva in una piccola porzione di cereali, a seconda delle volte cornflakes o palline al cioccolato, con il latte e poi una fetta biscottata da sola. Dopo aver finito si alzò e andò in salotto, al computer. Si mise a guardare la posta elettronica nella speranza le fosse arrivata qualche proposta di lavoro, era tanto speranzosa quanto cosciente che era ormai improbabile che la prendessero dopo così tanto tempo in quell’impiego a cui aveva rinunciato tempo addietro per lui. Dopo tre lunghi quarti d’ora decise che era inutile, si alzò e andò fuori in giardino. Il giardino era abbastanza piccolo e dava su uno splendido prato non curato di campagna. Si sedette sulla sedia a dondolo che era appartenuta a sua nonna; una bella sedia di legno intrecciato, comoda e ancora perfettamente funzionante ed efficiente dopo tutto quel tempo. Si tolse le pantofole rosa che aveva a i piedi e stette a guardare il paesaggio. C’era uno scoiattolo che sgranocchiava una nocciola in cima alla Grande Quercia (o almeno dalle sue parti era chiamata così), qualche farfalla variopinta svolazzante trasportata dalle brezza leggera e fresca di quell’afosa estate. Fiumi di formiche entravano e uscivano da un buco nella terra; certe volte sembravano tante macchine ordinate in autostrada, altre volte si scontravano e cambiavano direzione, si scontravano ancora e ancora cambiavano direzione. Un po’ come la sua vita che fino a poco prima era stata perfetta e all’improvviso un incidente l’aveva sconvolta. Si tolse gli occhiali con i bordi rossi che lui le aveva regalato e si mise a piangere. Era disperata.
I giorni seguenti passarono nella noia assoluta: non aveva niente da fare. Proposte non ne arrivavano e in casa non c’era granché con cui intrattenersi. Il tempo passava lento e scialbo e sembrava quasi che qualcuno avesse preso la clessidra della sua vita e l’avesse messa per orizzontale. Ormai non ce la faceva più… che senso aveva stare in una casa che le riportava alla mente troppi ricordi di lui, da sola e senza contatti con il mondo esterno? Decise che sarebbe andata a vivere da un’altra parte, forse sempre da sola, ma per iniziare una vita nuova. Prima, però, sarebbe andata nella casa natale di lui: voleva vederla dopo che lui le ne aveva parlato così bene e poiché, nonostante lui la ricordasse con affetto, non aveva mai voluto andarci e non c’erano mai andati. Quella casa però la incuriosiva e voleva sapere cosa lo teneva lontano da quell’edificio. Ci sarebbe andata la domenica successiva in cui, secondo le previsioni, si prospettava una bella giornata di sole di fine estate.
Quella mattina il sole era già alto nel cielo e illuminava le terre circostanti quando lei si alzò. Al risveglio seguirono le solite “mattinerie” (come lei le chiamava) che faceva sempre. Dopo aver controllato che nello zaino ci fosse tutto ed essersi vestita in modo comodo e sportivo uscì di casa, respirando a pieni polmoni l’aria pulita d’inizio settembre. Salì in macchina, una bella Jeep nera che era appartenuta a lui, infilò le chiavi e accese il motore. Il rombo del veicolo spaventò gli uccelli che si trovavano sugli alberi circostanti e volarono via. Con le chiavi automatiche aprì il cancello e partì verso la sua destinazione. La casa non era lontana, a circa 30 minuti di macchina, e questo la rendeva ancora più sospettosa sul perché lui non l’avesse mai voluta portare là. All’inizio aveva pensato che fosse perché aveva litigato con i suoi genitori o con dei parenti che vivevano lì, ma quando le disse che non ci viveva più nessuno da anni non le vennero altre spiegazioni plausibili, e con il passare del tempo se ne dimenticò. Scoprire di più su quel posto tornò nei suoi interessi dopo… l’incidente. Allora aveva trovato nel suo testamento, col quale le lasciava tutti i suoi averi, un biglietto dove lui le faceva una richiesta molto esplicita che non lasciava dubbi: vendere la casa. E infatti l’avrebbe venduta, ma prima ci sarebbe andata a fare un giretto: dopotutto lui mica l’aveva vietato.
Arrivò davanti alla casa senza accorgersene, perché immersa nei suoi pensieri. Quella però non era una casa! Era molto più di una casa. Era un grande villa del Rinascimento italiano, simile a quelle progettate da Palladio. Sicuramente, però, non era sua: perché un’opera del più grande architetto italiano di forse tutta la storia del Paese non sarebbe stata lasciata in uno stato fatiscente e di degrado. La casa, infatti, era molto vecchia e danneggiata dalle intemperie. Era grande e sontuosa, come una vecchia dama piegata dal peso degli anni, ma aveva la maggior parte dei muri sverniciati e sbeccati, il tetto diroccato e con molti buchi, il giardino incolto e con un’erba che le arrivava quasi al petto. Scese dalla macchina e, facendosi spazio tra la savana che era cresciuta negli anni, arrivò di fronte al portone principale. Era un grande portone fiero e austero, in legno di noce e con due grandi chiavistelli a zampa di leone. Poiché era educata bussò (anche se sapeva che nessuno avrebbe risposto) e quando, dopo aver aspettato qualche decina di secondi, si apprestò ad aprire la porta, sentì dei passi. Provenivano dal primo piano e dal suono sembrava scendessero le scale per arrivare all’ingresso principale. All’inizio si prese un colpo, ma poi, ripensandoci meglio, ipotizzò che fosse qualche funzionario o controllore che era venuto a verificare le condizioni dell’immobile; si mise dunque di fronte alla porta e pensò a qualcosa di educato da dire. Il suono si fermò d’improvviso, era separata dall’altra persona solo dal portone. Passarono 1, 2, 5, 10 minuti, ma non si sentiva più niente. Provò più volte a bussare, ma non venne più nessun suono dall’interno. Decise allora di entrare. Non vide nessuno, non sentì alcun rumore. L’unica cosa che percepì fu un odore stantio e vecchio di casa chiusa: l’edificio non veniva aperto da anni. Non capiva quindi come avesse fatto qualcuno ad entrare… Mentre si crogiolava in quel dilemma guardò fuori da una finestra incartata di ragnatele e vide che il tempo era cambiato; non c’era più il sole di quando era arrivata, ma c’era adesso una nube scura che veniva verso di lei e tutto era diventato buio. Questo dettaglio la risvegliò e si convinse che quei rumori erano stati un brutto tiro della sua fantasia, così decise di esplorare la casa. Attraversò vari ambienti: una grande sala da pranzo, adornata di lampadario e mobili pregiati, con una grande tavola al centro; una piccola biblioteca con tanti bei libri rilegati in pelle con le scritte d’oro; un salottino molto accogliente con un focolare al centro; e tante altre stanze.
La cosa che la colpì di più, però, fu che in tutti gli angoli della casa (per quanto vecchia, sporca e abbandonata) aveva sentito come una presenza: come degli occhi fissi su di lei. Era una sensazione strana e che non aveva mai provato; che la spaventava e allo stesso tempo la incuriosiva. Decise di continuare il giro della casa per svelare il mistero che si celava fra le sue mura. A un certo punto, mentre attraversava il corridoio al primo piano, avvertì una presenza, ma in modo più forte di prima. Si mise in ascolto e sentì un respiro flebile e rarefatto, come di una vecchia. Dopo aver identificato la porta da cui proveniva il suono si avvicinò lentamente, stando bene attenta a non farsi scoprire, ed accostò l’orecchio alla porta. Il respiro si sentiva ancora, ma adesso era più simile a qualcosa detto sottovoce. Le parole erano incomprensibili, ma dalla pronuncia e dall’enfasi con cui venivano pronunciate le sembrò una formula magica, come quelle sentite nei film. Rimase lì ad ascoltare per un po’, e ancora un po’, e ancora un po’, finché non si sentì molto stanca. Stava per chiudere gli occhi e accasciarsi a terra, quando d’improvviso si risvegliò e si rese conto che c’era qualcuno dietro di lei. Era una presenza importante e che la inquietava, ma non poteva restare lì a non fare niente. Raccolse, quindi, tutte le forze che aveva e si girò di scatto, pronta a dare un pugno alla faccia di chiunque si fosse trovato lì. Ciò che vide la lasciò paralizzata e senza forze, improvvisamente si sentì venire meno e perse i sensi.
Si risvegliò, in preda ad attacchi d’asma. Cercò di mettersi a sedere e di calmarsi, ma non ci riusciva. Doveva scappare di lì, ma da sola non ce l’avrebbe mai fatta. Prese il telefono e chiamò la polizia: dovevano sapere. «Pronto polizia! Mi trovo in Via di Casoni, Pievepelago. C’è qualcuno in casa mia! Lo conosco, si chiama…». La chiamata non arrivò mai a termine.
L’agente che rispose alla chiamata intuì la gravità della situazione e fu subito mandata una squadra di soccorso. Arrivarono e di corsa ispezionarono tutta la casa: non trovarono nulla. Cercarono per tutta la casa, ma nessuna traccia di persone o altre forme di vita.
Uno di loro però trovo un biglietto con su scritto “Ci rivedremo ancora. E se tu non verrai da me, sarò io a venire da te”.

Davide Agnelli
Classe / Liceo Classico Galileo di Firenze