Notizie dal fronte sovietico – Racconto

Era una notte fredda e gelida di dicembre, il Natale si avvicinava ma non potevo dire lo stesso della fine della guerra.
Milioni di persone erano impaurite dalla potenza della bandiera nazista, vedevo amici, compagni e familiari morire al passaggio delle truppe tedesche.
Non avevo più di 17 anni quando vidi mio padre morire nel 1941 sotto i miei giovani occhi, era la prima volta che provavo una sensazione così, era una sensazione che non riuscivo a togliermi dalla testa: lo vidi cadere a terra con una pallottola infilata in testa, con tutto il sangue che gli fuoriusciva come fosse una fontana. In un primo momento non me ne accorsi neanche, ma appena realizzai cos’era successo, capii di aver perso la persona a me più cara, quella persona che mi era stata vicina tutta la vita, quella persona che non avevo mai abbandonato fino a quel giorno, in quella stupida battaglia nella capitale della mia patria, la Russia.
Esattamente eravamo a Mosca nel bel mezzo della controffensiva dell’Armata Rossa contro l’esercito più ripugnante del mondo, la Wehrmacht. Fino ai primi di dicembre sembrava che ci dovessero schiacciare come insignificanti formiche, ma noi il 5 dicembre 1941 abbiamo fatto vedere al mondo che avremmo vinto la guerra, iniziando una potente controffensiva che sarebbe durata finché non avessimo distrutto i tedeschi una volta per tutte!
Dopo la morte di mio padre chiesi un trasferimento, perché non potevo sopportare di rimanere un altro giorno dove mio padre aveva ingiustamente perso la vita. Venni trasferito sul fronte Orientale a febbraio, dove vidi degli orrori che non si possono neanche immaginare.
Ogni giorno era una tortura e non potevo sopportare la vista di tutti quei compagni morire sul campo e vederli sputare sangue dai loro corpi straziati a terra, non potevo pensare al dolore che avrebbero provato le famiglie appena avrebbero saputo la notizia.
Era il 26 di febbraio del 1942, mi svegliai e vidi davanti a me uno dei miei migliori amici, Borislav Lebedev, un amico d’infanzia, che non rivedevo dall’inizio della guerra. Ci salutammo con un grande abbraccio e restammo un po’ a parlare delle nostre avventure e delle nostre disgrazie. Io pensavo che con la morte di mio padre sarei stato tra i più sfortunati di quelli che conoscevo, invece mi sbagliavo! Il povero Borislav aveva perso tutta quanta la sua famiglia, compreso il suo fratellino di appena 7 anni; sua sorella era stata catturata dai nazisti, violentata e uccisa davanti a suo padre che venne decapitato subito dopo.
Ero in preda alla collera, non potevo più tollerare tali tragedie! Afferrai un fucile, uscii dalla tenda e mi lancia sul campo di battaglia, mentre il mio amico mi fissavo incredulo. Presi un casco, le pallottole e iniziai a sparare a più non posso, facendo strage di soldati nemici. Arrivato a 20 persi il conto delle morti provocate, ma non mi importava niente, perché quella malvagia feccia dell’umanità doveva pagare per i crimini commessi.
A sera quando rientrai il comandante Aleksandr Vasilevskij mi fece i suoi complimenti per l’impegno e per la forza di volontà dimostrata quel giorno L’onore più grande però ci fu solo una settimana dopo, quando il compagno Stalin mi fece i suoi ringraziamenti per l’aiuto che stavo dando sul fronte e mi propose di trasferirmi altrove, ma non mi riferì in quale luogo fino al 25 di agosto dello stesso anno.
Dopo qualche mese mi guardai allo specchio a fondo, notai un piccolo particolare, non mi riconoscevo più, mi sembrava di essere cambiato, non volevo saperne di finire la guerra, volevo uccidere e sterminare quei cani rabbiosi dei tedeschi. In quel preciso momento mi feci una promessa: avrei dato un grande contributo alla mia nazione nella vittoria della guerra e non mi sarei dato pace finché ciò non fosse avvenuto.
Con mia grande sorpresa il 10 di giugno del 1942 venni nominato Caporale della fanteria, ancora una volta ricevetti i complimenti di Stalin, ma soprattutto li ricevetti da mia madre, la quale era ancora sconvolta per ciò che era accaduto a mio padre, ma trovò comunque la forza di resistere per la sua famiglia.
Poche settimane dopo anche Borislav venne nominato Caporale, ma ci vennero assegnati due reggimenti diversi. L’ultima volta che lo vidi era in marcia insieme agli altri per raggiungere Voronež, era esattamente il 5 luglio. Ora che ci penso, però, quella non fu l’ultima volta che lo sentii nominare, perché morì il 30 settembre nella battaglia più importante della guerra, la Battaglia di Stalingrado.
Eccola, la chiamata! Il 25 di agosto Stalin mi trasferì a Stalingrado, dove i tedeschi volevano provare a sfondare l’esercito sovietico una volta per tutte.
Io combattei con altri 1.800.000 uomini, ma soprattutto al fianco del mitico Vasilij Grigor’evic Zajcev, ovvero il cecchino che da solo uccise moltissimi tedeschi, portando alla vittoria il suo Paese.
Appena arrivato venni spedito su un’imbarcazione piena di soldati disarmati e infreddoliti, fummo bombardati dai cannoni tedeschi, infatti qualcuno ci rimise la pelle, poi la Luftwaffe iniziò a spararci, uccidendo una trentina di uomini. Arrivammo a riva in pochissimi uomini, diedero i fucili ogni due persone, perché uno doveva sparare mentre l’altro doveva tenergli le munizioni e aspettare la morte del compagno per impadronirsi dell’arma.
Inizialmente i comandanti adottarono una tecnica alquanto strana: dovevi andare incontro al nemico infliggendo il maggior numero di danni, se tornavi indietro trovavi i cannoni dei tuoi compagni d’esercito che non dovevano farti uscire vivo dalla battaglia, altrimenti saresti risultato un traditore della patria.
Io e il soldato a cui tenevo le munizioni mettemmo in atto un piano quasi “diabolico”, infatti ci sdraiammo in terra fingendo di non avercela fatta e verso notte tornammo all’accampamento.
Non feci molte amicizie, non avevo il tempo necessario neppure per dialogare solo 10 minuti, perché il lavoro da caporale maggiore e poi da sergente si fece pesante. Sì, proprio così: divenni prima caporale maggiore e verso il 5 gennaio del 1943 fui promosso sergente, non ne so i motivi precisi ma sapevo di aver fatto qualcosa di importante o di grandioso per meritarmi questi ranghi.
Purtroppo però il tempo da sergente durò ben poco perché il 1° febbraio 1943 fui colpito da un cecchino, quasi come mio padre, e cedetti al fredda abbraccio della morte.
Ora sono sepolto nel cimitero della mia città a Kiev dove mia sorella e mio cugino vengono spesso a trovarmi e a lasciarmi dei fiori nuovi e profumati che hanno lo stesso odore della vittoria della Seconda Guerra Mondiale, il 9 maggio 1945.
Duccio Casini / Liceo Classico Galileo di Firenze