Racconto di Natale

Il mio nome è Luke Morley. Già, Luke Morley. Chissà se lo avete già sentito da qualche parte; magari su qualche giornale o al notiziario. Non ci credo che non lo abbiate mai sentito. Da qualche tempo sono sulla bocca di tutti. La vostra ignoranza mi fa morire dalle risate.
Morely, un cognome come tanti: questo è ciò che pensate, e sbagliate. Il mio non è un cognome come tanti, ma per voi è un cognome “vuoto”, vuoto come le vostre teste. Se Morely non vi dice nulla, forse l’epiteto “Killer dei balli” farà smuovere quell’unico neurone che avete e vi ricorderete di me. Ancora niente? Mi toccherà raccontarvi tutto. Tanto di tempo ne ho tanto, qui in prigione non scorre mai.

Questa è la mia storia, iniziata la notte del 1° dicembre, sulla strada principale del mio paese.
Saranno state le due del mattino, era una dannata notte senza luna ma la vita notturna della mia città procedeva come sempre, anche se invisibile ai più: spacciatori, ubriachi e prostitute. Poi c’ero io, con i miei occhi verdi che riflettevano i lampioni. Non è che mi piacesse vagare durante la notte, non sentivo “mio” quell’ambiente, ma c’era qualcosa o meglio, qualcuno, che mi spingeva sempre a uscire la sera: Selene.
«Selene» mi ritrovavo spesso a pensare, «che nome inusuale, adatto però ad una creatura della notte.», mi dicevo camminando distratto, immerso nei miei pensieri, con la mano stretta alla cintura, per assicurarmi che la mia amata Glock 17 fosse sempre al mio fianco. Il toccare il suo metallo freddo mi tranquillizzava, mi faceva sentire protetto come in nessun altro luogo.
Ero un po’ sballato, lo ammetto, quando entrai nel vicolo di Selene. La volevo vedere, ma non c’era. Mi si avvicinò una ragazza bionda, alta e bella, anche se non come Selene, perfetta per il mio scopo. Ma io volevo Selene.
«La tua bella non c’è» mi disse la ragazza, facendomi così accorgere di aver parlato ad alta voce, «Dai, vieni dentro. stiamo al caldo.» propose. L’idea mi allettava, lei era perfetta, perfetta dico. Entrai nella piccola casa dietro di lei.
«Come ti chiami?» le chiesi.
«Helen.» rispose, «Conosci Selene?» mi chiese.
«Sì, problemi?» risposi brusco.
«No, figurati. Non c’è, non chiedermi perché, non lo so».
«Ah, tranquilla. Non ne avevo intenzione; lo scoprirò da solo.» sussurrai.
Helen mi fissò, poi iniziò piano piano a spogliarsi. La mia mano scivolò sulla mia “17” e, quando la ragazza mi si avvicinò, partirono prima uno, poi due e poi tre colpi, diretti alle sue gambe. Il sangue colava a terra, unito alle sue urla mentre “ballava” in preda al dolore. La guardai sorridendo, premetti nuovamente il grilletto. Mi sedetti sul letto, lei si dimenava, urlava, soffriva. Finalmente riuscì a morire.
Uscii dalla casa, soddisfatto, tornai al mio appartamento, aprii la prima finestrella del calendario dell’Avvento e mangiai il mio cioccolatino.
Ero consapevole che sarebbero venuti  presto a cercarmi, ma ero tranquillo. Mi buttai sul letto e mi addormentai; sognai Selene.
I giorni passavano lenti e monotoni; il mio volto era presente in ogni telegiornale, ad ogni ora del giorno. Da quel 1° dicembre avevo trovato uno scopo alla mia vita, l’Avvento, adesso, aveva un senso concreto.
Norton, David, Sarah, Martin, Andrew, James, Amelia, Isla, Samantha, Liam, John, Eve, Daniel, Ethan, Noah, Sophia, Susan, Charles, Jessica, Madison, Abigail e Reece si aggiunsero al nome di Helen, tutti avevano svolto il loro “ultimo ballo”.
Il 23 sera, dopo aver fatto “ballare” Reece, decisi di tornare da Selene, dovevo vederla, il mio corpo e il mio spirito avevano bisogno di lei. Uscii, pioveva, quindi percorsi correndo i piccoli vicoli, fino a giungere dove avrei trovato la mia amata Selene. Trafelato, vidi la porta aperta, entrai, salii le scale, arrivai alla camera a me tanto cara, socchiusi la porta e la vidi: era bella come sempre, con i capelli neri sciolti sulle spalle e la pelle candida nuda sotto i miei occhi. Bella, bella e maledetta. Maledetta, maledetta lei e il giorno in cui l’ho incontrata, maledetto me che mi ero fidato di chi diceva di amarmi e che adesso giaceva con un altro uomo sotto ai miei occhi, maledetta, maledetti. Me ne andai, la rabbia si era impossessata di me, dovevo farla finita. Dovevo far finire tutto. Decisi di tornarmene a casa e di far ritorno dalla cara Selene la notte successiva, così, per divertirmi un po’. La notte del 24 dicembre, la Vigilia del Santo Natale, mi misi in attesa davanti alla porta della ragazza, poi lo vidi arrivare. Sorrisi, presi la “17”, lo guardai.
«Come ti chiami?» chiesi.
« Jonathan Grace, perché?» rispose.
«Per dare un nome a quello che mi ha portato via Selene!» gli urlai in faccia.
«Portato via? Abbiamo una relazione da un anno. Io non ho portato via nessuno.» rispose. O meglio, provò a rispondere, non gli feci finire la frase, lo feci solo iniziare a “ballare”.
Sorrisi e, mentre salivo le scale per andare da Selene, sicuro adesso di trovarla sola, scrissi su un foglio “Jonathan, 24”.
«Selene? » chiesi entrando nella stanza.
«Sì, entra pure, Luke.» rispose.
Entrai, lei era sul letto, i vestiti a terra.
«Ti stavo aspettando» mi disse sorridendo, cercando di infilarsi sotto le coperte.
«Mi stavi aspettando, eh?» sussurrai, «E qual è il tuo modo di aspettarmi, accompagnarti con un altro?» le dissi alzando la voce.
«Ma Luke, non capisco di cosa tu stia parlando, non ti capisco. Perché adesso mi stai trattando così male? Non conto più  nulla per te?»
«Non capisci, eh? Vediamo se questo ti aiuta: Jonathan Grace?»
«C-come hai…» balbettò.
«Come ho fatto mi chiedi? Facile. Ieri ero venuto a cercarti. Avrai sentito parlare delle colpe di cui mi sono macchiato e io volevo solo passare forse la mia ultima notte di libertà con la persona che amo, o meglio, che amavo, venuto qui. E ti ho vista con lui. Aadesso, lui, non c’è più. Ha ballato il suo ultimo ballo».
Selene mi guardò, scorsi il terrore nei suoi occhi mentre, rapida, si vestiva. Spostai la mano sulla mia “17”: serviva solo il momento giusto. I suoi occhi azzurri scorsero il mio gesto.
«No. Non lo fare. Ti prego. Non ti ho mai fatto niente di male.» sussurrò.
La guardai, mentre l’orologio del campanile batteva la mezzanotte: il 25 dicembre, Natale.
«Le senti le campane Luke? È Natale. A Natale siamo tutti più buoni…» mi disse piano, avvicinandosi.
«Hai ragione Selene. Siamo tutti più buoni… Buon Natale.» dissi duro, guardandola negli occhi, prendendo la mira.
Urlò, cadendo a terra senza vita: le avevo sparato un unico colpo alla testa.
Dopo aver riposto la mia “17”, uscii tranquillo in strada e mi diressi verso casa mia, scrivendo su un foglietto “Selene, 25”.
Dopo qualche ora, bussarono alla mia porta, fecero irruzione, rovesciarono tutto ciò che trovarono, presero la mia Glock, staccarono dal muro il mio calendario dell’Avvento e lo buttarono a terra: caddero 25 foglietti, ognuno con sopra un nome e un giorno.
«Avevi previsto tutto?» mi chiesero.
Non risposi. Mi presero con la forza, mi portarono via. Ormai non mi importava più: la mia coscienza era a posto, in fondo ero stato più buono.
Laura Cappelli / Liceo Classico Galileo di Firenze