Buon Natale alle stelle – Racconto

“Eccola”, pensai.

* * *

«Uff» esclamai tutto d’un fiato accasciandomi su quel sedile freddo dell’autobus. Erano le otto di sera e non c’era nessuno su quel mezzo; chissà, magari erano già a cena o a qualche sfortunato era andato peggio di me a lavoro. Guardai fuori dal finestrino e poi, capendo, mi colpii la testa con un leggero colpo della mano.
«Ma certo!» pensai «Oggi è la Vigilia di Natale!»
La gente sarà chiusa in casa, davanti al fuoco a cantare canzoni natalizie. La gente sarà insieme alla propria famiglia a preparare i pranzi maestosi per il giorno dopo. Oppure la gente starà incartando i regali per i propri figli e la loro spensieratezza. Si starà preparando per andare alla messa di mezzanotte, la gente. Quella gente è felice oggi. Pensai alla giornata che avevo avuto: in ufficio, sulla mia scrivania da segretaria avevo posto un piccolo ombrello di plastica, comprato a un prezzo molto economico al supermercato sotto casa. Non avevo comprato nient’altro, nemmeno per il mio modesto appartamento. Poi il mio capo mi aveva avvisato che sarebbe mancato tutto il giorno. “Porto mia moglie ai Caraibi” mi aveva detto al telefono “credo che abbia intuito qualcosa sulla mia amante e voglio farle un regalo di Natale strabiliante per farle cadere ogni sospetto. Nel frattempo potresti, carissima, finire tutte le mie commissioni? Grazie e buone ferie, Bianca!” e così dicendo aveva riattaccato. E io, in silenzio e oramai rassegnata, andai a prendere le pile di fogli nell’ufficio del mio capo.
Un puzzo, che non riuscivo a capire di che cosa fosse, mi penetrò nelle narici, portandomi alla realtà. Guardando di nuovo fuori al finestrino mi tornò in mente che, con tutto quel gran da fare, mi ero scordata di fare la spesa: non avevo niente di che da mangiare quella sera, se non un piatto di pasta e forse qualche uova con cui potermi fare una frittata o… una frittata, non sapevo fare altro. Misi gli auricolari alle orecchie e iniziai a pensare ad altro che non fosse quella musica, non avevo voglia di tornare a casa, mi sentivo triste e sola. Almeno sul bus ero in compagnia dell’autista e non del rimbombo della mia voce nelle stanze vuote. Morivo di freddo su quel bus: era vecchio, mal funzionante… oltre a cigolare per ogni movimento, non funzionava neanche il riscaldamento. Gli occhi si chiudevano da soli, ma il rumore era tale, così come le fitte forti ai fianchi per ogni scossa, che non ero riuscita a prendere sonno. Guardai fuori dal finestrino. E in poco tempo la mia attenzione fu catturata da una scena, beh, toccante. Erano le otto di sera passate e nella foschia avanzavano due figure minute, poco vestite per le basse temperature di quella giornata: erano due bambine, magrissime, con addosso solo una t-shirt e un paio di pantaloni in jeans. Avranno avuto intorno ai nove o dieci anni e, data l’ora, pensai che fossero sorelle. Erano appena uscite da un negozio, trasportavano due borse della spesa quasi vuote, a occhio e croce avranno avuto tre articoli a testa. Una cena di Natale? Sì, ma a giudicare dal loro aspetto non sarebbe stata molto lussuosa. Una delle due ragazze era sulla sedia a rotelle: rideva spensierata con l’altra ragazza, molto presa dal proprio racconto. Erano così… felici. Vivevano in povertà, in malattia, le cose per cui io mi ero lamentata quel giorno sarebbero apparse ridicole a loro. Eppure, nonostante tutto, proprio per quella felicità le invidiavo e sarei voluta essere loro in quel momento. Poi scossi la testa. “Chi voglio prendere in giro?” pensai “Non resisterei neanche un secondo, non sono così forte”. Le guardai un’ultima volta mentre voltavano l’angolo per rientrare in casa e quella visione mi portò indietro alla mia infanzia: Natale, da piccola, voleva dire alzarmi insieme a mia sorella per andare a svegliare i nostri genitori dopo una notte passata in bianco per l’eccitazione. E allora mio babbo si alzava, andava in salotto, metteva della musica natalizia e poi, io e mia sorella, lo raggiungevamo per aprire i regali. Nostra madre preparava ogni anno anche una caccia al tesoro e noi due, piccole e sorridenti, mettevamo alla rinfusa tutta casa per trovare gli indizi nascosti. Stavamo sempre insieme, io e mia sorella. Sorrisi ripensando ancora a lei e forse, dissi tra me e me, era quella l’unica cosa che contava per Natale.
Due fermate prima di scendere il bus si era fermato davanti a un semaforo rosso. Lì fuori se ne stava, seduta davanti a un tavolino di un bar, una signora sulla quarantina, in lacrime. Davanti a lei un uomo in divisa militare, con un mozzicone di sigaretta tra le labbra: guardava il vuoto, impietrito. E impietrita divenni io, capendo che cosa stava succedendo. Il caffè nelle loro tazzine non esalava più alcun filo di vapore, chissà da quanto tempo la loro magia del Natale si era infranta, pensai. Appena il bus ripartì pensai anche al perché avevo smesso di festeggiare il 25 dicembre con mia sorella: quando era diventata appena maggiorenne volle arruolarsi nell’esercito. Io ero dalla sua parte, certo, ma speravo che fallisse tutti i test, o almeno quelli necessari per l’ammissione. Ma non accadde mai: passò con il massimo ogni prova e un giorno, un Natale ormai passato, non mi alzai dal letto, non volli aprire alcun regalo né cantare chissà quale tradizionale motivetto: il mio spirito natalizio era morto, come me, quando la notte della Vigilia sentii mia madre scoppiare in lacrime dopo aver risposto a una chiamata più che inattesa. Era volato via, facendomi diventare lamentosa per ogni piccola cosa storta mi capitasse in quei giorni. Se ne era andato, così come mia sorella. Il riso lasciò posto al pianto silenzioso, cercai di soffocare le lacrime ma ci riuscii a stento solo dopo una manciata di lunghissimi minuti. Scesa dal bus, mi incamminai verso casa, non sapendo ancora come avrei passato quel Natale. I pensieri nella mia testa erano contrastanti, sarei voluta andare di corsa dai miei genitori, ma d’altro canto non li vedevo da anni, da quando me ne ero andata di casa in seguito al funerale di mia sorella. Infreddolita, entrai nel mio appartamento e mi buttai sul divano con tutto il mio peso.
«Io me ne resto qui fino a domani» dissi ad alta voce.
Quel che successe poi fu un po’ strano: sentii delle campanelle, un rumorino flebile flebile proveniente da camera mia. Era lo stesso suono che sentivo da piccola. I nostri genitori ci avevano sempre raccontato che, se senti le campanelle, è perché Babbo Natale è vicino. Ma io non credevo più in lui, non aveva senso sentire ancora quel tintinnio… Mi alzai, incuriosita, e mi diressi in camera. Solo allora mi accorsi che forse erano state le campane della Chiesa a suonare, erano le nove precise. Mi voltai per andare in cucina, ma fu in quel momento che un libro cadde dalla mia libreria. Era da anni che non lo sfogliavo: lo aveva regalato a me mia sorella per l’ultimo dei miei compleanni che avevamo passato insieme. Lo aprii e dentro ci trovai un bigliettino. Lo lessi ad alta voce nella mia mente, come ci fosse lei lì vicino a me. “Non resteremo mai sole” recitava l’ultimo verso. Iniziai a piangere, sempre più forte. Magia del Natale o no, capii che cosa dovevo fare in quel momento. Andai in cucina, presi del vino e della pizza avanzata dal frigo, che feci riscaldare un pochino. Salii in macchina e guidai con la meta da raggiungere ben fissa nella mente. Quando scesi presi una coperta dal bagagliaio ed entrai in quel posto in cui mi ero rifiutata di metter piede da sempre, per paura di perderla ancora di più nel vedere il suo nome là dentro.
“Eccola”, pensai. Distesi la coperta, appoggiai la mia cena e guardando la foto di mia sorella sulla sua lapide dissi: «Hey, buon Natale, sorellina».
Ginevra Comanducci / Liceo Classico Galileo di Firenze