Il consumismo sfrenato contagia anche la moda

Tutti noi indossiamo vestiti, e per molti ciò costituisce anche un modo di esprimersi. Ma vi siete mai chiesti da dove provengono, e qual è il vero costo in termini di vite umane e impatto ambientale che questi hanno?
L’industria della moda è radicalmente cambiata negli ultimi anni. Da una collezione per stagione si è passati a una collezione per settimana, con un ricambio velocissimo della merce; da questo deriva la terminologia “Fast fashion”. Ad esempio negli anni ‘60 negli USA il 95% dei vestiti era lì prodotto, oggi è soltanto il 3%, poiché più la produzione è esternalizzata più i costi si abbassano.
Le grandi multinazionali decidono di delocalizzare in paesi in via di sviluppo, dove il costo della manodopera è estremamente esiguo, così da poter mantenere costi accessibili ai consumatori occidentali e ottenere il massimo profitto. Inoltre le misure di sicurezza non vengono rispettate, portando a disastri come quello del Rana Plaza; un edificio commerciale di otto piani nella periferia di Dacca, che nel 2013 crollò portando con sé più di mille vite e migliaia di feriti, è infatti considerato il più grave cedimento strutturale della storia moderna. I lavoratori, in maggioranza donne, spesso molto giovani, avevano fatto notare la presenza di crepe sui muri, ma era stato imposto loro di tornare a lavoro. Questo è solo uno dei tanti incidenti avvenuti in fabbriche tessili di paesi come il Bangladesh. Chi chiede salari minimi più alti ed il rispetto delle norme di sicurezza viene duramente represso, come è successo a dei manifestanti cambogiani su cui è stato aperto il fuoco durante degli scontri con la polizia. Il governo di un paese come la Cambogia, infatti, temendo che le aziende si spostino in luoghi ancora più economici non ha interesse a tutelare i diritti dei lavoratori. C’è chi però giustifica l’operato delle multinazionali del fast fashion affermando che non solo quella di lavorare in una fabbrica tessile è una delle opzioni migliori per gli abitanti del luogo, ma anche un processo necessario per alzare gli standard di vita dei paesi in via di sviluppo. Della stessa opinione non è Sofia Minney, fondatrice e CEO di “People tree”, un progetto di commercio etico ed equo a livello globale, che lavora a stretto contatto con gli operai del luogo promuovendo la loro creatività e autodeterminazione, dimostrando che un’alternativa è possibile.
Il problema non è solo legato agli operai tessili, ha anzi molte ramificazioni: se così tanti vestiti devono essere prodotti, anche il cotone di cui sono fatti deve tenere il passo, perciò oggi l’80% di esso è OGM, e interi campi vengono cosparsi di pesticidi e fertilizzanti con effetti sul suolo e sulla popolazione. Molte persone a contatto con queste sostanze chimiche sviluppano malattie fisiche e mentali, sono poi costrette ad indebitarsi per pagare le cure. Tanti contadini ricorrono al suicidio, che è diventato una vera e propria piaga nella regione del Punjab in India.
A soffrire di depressione però sono anche i consumatori, vittime delle pubblicità che creano falsi bisogni, inducendoli a comprare sempre di più senza che siano mai realmente soddisfatti. Consumando sempre di più, si creano anche più rifiuti, per un totale che ammonta a circa 11 tonnellate di rifiuti tessili all’anno solo negli USA. L’industria della moda è la seconda più inquinante al mondo dopo quella del petrolio.
Non è un problema che può essere ignorato, è qualcosa che ci riguarda tutti. E voglio credere che, nel nostro piccolo, abbiamo una scelta, mettendo anche in conto che possiamo anche essere incoerenti (io stessa scrivo da un computer che probabilmente non è stato prodotto in modo etico). Ma credo anche che fare qualcosa, per quanto apparentemente insignificante, sia meglio dell’arrendersi senza reagire. Informarsi, mettere in dubbio tutto ciò che consumiamo ci rende più consapevoli, e forse anche più felici.
Emma Fiorentino /  Liceo Classico Galileo di Firenze