“FIORIR SI PUÒ E SI DEVE”

“A che mi servirà la mia vita?”

Leopardi, in quella che è la sua opera più grande, “Lo Zibaldone”, crea, a sua insaputa, un eterno ponte di comunicazione con le generazioni future. La storia ci insegna che gli uomini sono mossi da obiettivi, ed è solo grazie ad essi che vi è un continuo progredire. Il poeta, giudicato da molti “sfortunato”, si chiede, invece, cosa potrebbe succedere a coloro i quali non vedono una meta alla fine della propria strada. Che uomo è un uomo che non ha uno scopo?

Oggi è difficile, per noi giovani, trovare un senso alla vita. Le nostre strade ci vengono poste davanti già spianate. Si è proiettati verso il futuro, verso un mondo quasi totalmente robotizzato, capace di agevolare qualsiasi fatica dell’uomo. La parola d’ordine al comando del generale Futuro è: “Lavoro!”. Dunque il lavoro, così come nella “Metamorfosi” di Kafka, diventa un modo per acquisire un posto all’interno del grande complesso chiamato “umanità”; una via semplice per inserirsi all’interno dell’omologazione della società di massa. Ecco che si diventa tutti ingegneri, medici, architetti, ma che sia veramente questa la strada per la felicità?

Leopardi all’apparenza potrebbe sembrare antico e negativo, alcuni gli danno del “depresso”, ma in realtà è più futurista dei poeti del ‘900. Giacomo, che concede solo a chi lo comprende, l’onore di essere così chiamato, ci porta all’attenzione un problema più che mai odierno : a cosa serve dire di essere “grandi”, potenti, a cosa serve esclamare a gran voce di essere il futuro, quando altro non si fa, se non tornare indietro?

Ma chi sono questi uomini che, come gamberi, camminano verso il passato? Sono coloro i quali vivono tanto per vivere, quelli che un ideale non l’hanno mai avuto e che, adesso che si trovano circondati dai sogni di un’intera popolazione, non riescono a fare i conti con se stessi.

“Il giovane favoloso” insegna che anche il più convinto pessimista può coltivare il proprio sogno e renderlo reale. Leopardi era solo un ragazzo quando scoprì la sua vocazione, quando si rese conto che la vetta della sua montagna doveva essere la felicità; ma non una felicità qualsiasi, non quell’attimo di passeggero piacere, al contrario, la felicità eterna che solo nell’amore per gli altri e degli altri trova pace. Ora i più cinici diranno che è impossibile trovare uno scopo all’interno di questo mondo, che è impensabile creare una strada nuova nel deserto, ma si sbagliano. Il poeta di Recanati ha trascorso l’intera vita dentro un continuo conflitto tra natura e ragione, con un alternarsi delle stagioni dell’anima.

Nonostante ciò, Alessandro D’Avenia, circa duecento anni dopo, all’interno di un libro elogio all’uomo che è stato (prima ancora di essere poeta), gli dedica cinquanta motivi per essere amato. Come si può dunque amare una figura tenebrosa?

Si può fare nel momento in cui ci si rende conto di non essere unici al mondo, di essere pedine all’interno del “sistema Natura” e che, solo attraverso l’unione, si può arrivare ad una vita degna di essere chiamata tale. Il segreto è imparare a “mirar” Mirar trova la sua traduzione moderna nel termine “ammirare”, ma, anche quest’ultimo, non ne esprime appieno la bellezza e la dolcezza datagli da Leopardi. Imparare a “mirar” vuol dire imparare a guardare con incanto tutto ciò che ci circonda; significa puntare i piedi verso il mare, come nel celebre quadro simbolo del Romanticismo, e perdersi nell’infinità bellezza della natura, alla ricerca di un senso da dare alla propria vita. “Mirar” porta con sé la leggerezza del viaggiatore che parte dalla propria terra, dalla propria giovinezza, ancora fanciullo, e cammina, inciampa, a tratti corre pure, percorrendo la strada della maturità, delle volte deserta, altre sin troppo affollata, pur di arrivare alla fine con un bagaglio più grande di quello che aveva con sé alla partenza.

In un immaginario dialogo tra Leopardi ed uno studente del quinto anno di liceo, il giovane favoloso, senza batter ciglio, consiglierebbe sicuramente di comprendere quale sia il motivo per cui è in vita; che vita non è vagabondare in una società massificata, ma vita è saper cogliere la bellezza delle proprie capacità e metterle al servizio degli altri. Lo studente replicherebbe, dall’alto del suo pessimismo, che la bellezza è una cosa andata perduta e che, questo, glielo aveva già insegnato il “Piccolo Principe” anni prima. Ma la grandezza di questo immenso poeta nasce proprio dalla capacità di credere nei propri sogni anche quando ciò che ci circonda ci induce a smettere di farlo!

“Perchè fiorir si può e si deve, anche in mezzo al deserto, perché se le cose fragili come un fiore di ginestra lo sanno fare, anche noi siamo chiamati a fare altrettanto”.

E’ un dovere ed un diritto al tempo stesso, cadere, confondersi tra la massa, ma solo per mettere radici, così da poter fiorire, un giorno, alzare il capo e “mirare” il mondo sconocchi nuovi, fissi sulla propria strada.

Anna Di Franco VAL