Le bambole della società 

Nel Medioevo la figura femminile era vista come un essere sublime, tanto da diventare sinonimo dell’amore stesso: “Io voglio del ver la mia donna laudare”, scriveva Guinizzelli in uno dei suoi sonetti, dove appunto lodava un ideale, comune al tempo, di donna perfetta. Solo lo sguardo o il cenno della testa, come segno di saluto da parte dell’amata, era sufficiente a “donare salvezza” e far sentire le “farfalle nello stomaco” al poeta. Ma per poter provocare questi effetti, la donna doveva rispettare dei canoni di bellezza che non erano per niente inclusivi, ampi o comprensivi verso chi non vi rientrava :

 “La donna ha il corpo ben fatto, i fianchi stretti, il collo più bianco della neve su un ramo. I suoi occhi sono grigio-azzurri, il viso chiarissimo, la bocca gradevole ed il  naso regolare. Ha le sopracciglia brune, la fronte ampia, i capelli ricciuti e biondissimi. Alla luce del giorno sono più luminosi dell’oro.”

   Sono queste le parole di Marie de France, una poetessa del XII secolo. Insomma, l’immagine della donna doveva corrispondere a quella di una bambola umana. E se capitava che una fanciulla non fosse compresa all’interno di questi parametri o che magari non fosse nemmeno così bella? Sarebbe stata in grado di far scattare il colpo di fulmine a coloro che su di lei  posavano di sfuggita lo sguardo ?

Ovviamente, non solo in quell’epoca storica una ragazza doveva essere fisicamente  in un certo modo per essere accettata. Il problema infatti persiste ancora oggi. I mass media, in particolare, propongono il ritratto di una donna fatta sempre più di stereotipi, spesso maschilisti ma non solo, che vengono accettati passivamente dalla società come se non fossero sbagliati.  Il fisico deve essere snello, proporzionato, non troppo alto ma nemmeno troppo basso e con tutte le curve al posto giusto; il volto deve avere un naso piccolo e fine, labbra carnose e occhi da cerbiatto. Questo, oltre che portare ad una completa omologazione e ad un completo disinteressamento verso ciò che sono i valori o il carattere di una persona, produce notevoli complessi in tutto il gentil sesso, che non si sente accettato per quello che è. Le giovani, tra tutte, sentono maggiormente il peso di questi ideali, che spingono a modificare la propria persona  fino all’estremo e talvolta in modo rischioso. Se si pensa, ad esempio, di essere in sovrappeso, perché il modello che viene proposto è molto magro, si potrebbe incorrere in disturbi alimentari gravi. Uno tra questi è l’anoressia nervosa, ossia il rifiuto di nutrirsi per paura di ingrassare e quindi di apparire “imperfette”. 

Inoltre, il problema non si esaurisce nell’aspetto esteriore, ma riguarda anche determinati comportamenti ritenuti “giusti”. Un esempio concreto è costituito dai programmi televisivi: questi hanno come protagoniste ragazze di bell’aspetto, spesso vestite in modo succinto, che fanno da vallette al presentatore del sesso opposto e che sembra facciano di tutto per apparire frivole e ottuse agli occhi di chi guarda, lasciandosi sottomettere e mettendosi in ridicolo ogni volta che viene loro richiesto. Le proposte di intrattenimento dove la donna è conduttrice e parla di argomenti interessanti e di cultura sono nettamente inferiori e trasmesse in momenti “morti” della giornata, al contrario di programmi mandati in onda nell’orario di punta. Ovviamente le pubblicità non sono da meno. Basti pensare a come il corpo femminile, corpo che è chiaramente bersaglio di standard prestabiliti e che appare quindi innaturale e privo di  imperfezioni, venga sfruttato per la vendita di qualsiasi tipologia di prodotto, diventando così un oggetto a tutti gli effetti. Quello che lascia perplessi è come sempre più donne, un po’ per rinuncia e un po’ perché è facile seguire il pensiero della collettività, si “auto-oggettivizzino”, cominciando a riconoscersi e analizzarsi come cose, con l’obiettivo di soddisfare il desiderio altrui. E questa “oggettivazione” non è una novità dell’ultimo decennio, ma continua dagli anni ’50 e ’60, quando la televisione si è diffusa all’interno di tutte le abitazioni.

 Gli spot di quell’epoca sono infatti i peggiori: la posizione subordinata della donna rispetto all’uomo non solo era fatta vedere, ma perfino messa in evidenza. Si è così divulgata e consolidata l’immagine della “brava casalinga”, adatta solo e soltanto a fare pulizie tutto il giorno e a cucinare per il marito che torna a casa dopo una dura giornata di lavoro e che non si interessa minimamente di  migliorare il proprio essere, coltivando le proprie passioni e i propri interessi. Insomma, in questi casi non sarebbe sufficiente parlare solo di oggettivazione femminile, ma di deumanizzazione: ossia lo sfruttamento per scopi altri dell’immagine di un essere umano, al quale viene prima sottratta l’identità.

E, a dir la verità, una parte di questi ideali è rimasta tutt’oggi. Non si può di certo negare il fatto che una donna che vuole fare carriera e crescere professionalmente venga vista in malo modo rispetto a una che vuole mettere su famiglia e avere dei figli, anche se ovviamente una cosa non dovrebbe escludere l’altra.

Nonostante questa denigrazione femminile abbia origini lontane, non viene fatta quasi nessuna campagna di sensibilizzazione sull’argomento. Viene forse considerato ridicolo? È valutato come un futile capriccio dal gentil sesso? O è semplicemente ignorato, perché ritenuto una questione di bassa rilevanza? 

Persino in ambito musicale non si perde un attimo a sminuire l’essere femminile: nelle canzoni rap tanto amate dai giovani, le donne sono spesso definite “dai facili costumi” e le frasi che fanno riferimento a questo sono usate all’interno dei loro testi, quasi come fossero intercalari. Certo il ritmo e la melodia possono essere orecchiabili, ma è davvero questo il messaggio che si vuole far passare, ancora una volta? 

Il punto fondamentale del discorso è a cosa l’oggettivazione femminile può portare. Se nel gentil sesso questo conduce ad una scarsa considerazione di se stesse e ad un complesso di inferiorità, negli uomini, in casi estremi ma ormai non troppo rari, porta a considerare la donna un oggetto di loro proprietà e non una loro pari. Questa possessione, che viene scambiata per gelosia nella grande maggioranza dei casi, può sfociare in violenza che si manifesta in maltrattamenti, e nei casi più estremi, in omicidio. Si stima che le vittime di femminicidio volontario in Italia abbiano raggiunto, solo nel 2018, il numero di 142; nel 2020 sembra che questo dato, e di conseguenza la violenza di genere, non accenni a diminuire. 

Viene da chiedersi se tutte queste brutalità avranno mai una fine se si continua a non fare nulla. Le donne smetteranno mai di essere le bambole con cui la società si diverte a giocare? 

 

Linda Macrì – 3BR