Associazione umanitaria a Zanzibar

Intervista a Sara Maniconi, una donna quarantenne Brindisina che, dopo un primo viaggio a Zanzibar durante una vacanza, ha deciso di fondare un’associazione per aiutare la gente di quest’isola della Tanzania e di tornarvi per poi restare.

Coraggiosa e ammirevole la scelta di lasciare tutto in Italia ed andare a vivere a Zanzibar per fondare un’associazione umanitaria volta a stimolare il progresso in questo luogo, che appartiene alla lunga lista di paesi “in via di sviluppo”. Quali sono i motivi principali che ti hanno spinto a prendere una tale decisione?

“tutto è nato dopo aver fatto un viaggio qui a Zanzibar durante le vacanze di Natale cinque anni fa. Sono rimasta colpita dalla povertà ma al contempo anche dalla semplicità e dalla serenità delle vite degli abitanti di questo luogo; ho compreso, in poche parole, cosa volesse dire avere il “mal d’Africa”. Tornata in Italia avevo costantemente l’impressione che la mia vita quotidiana fosse sommersa di impegni ma allo stesso tempo vuota, come priva di scopo; in breve tempo mi sono accorta che di tutto ciò che prima consideravo fondamentale, per esempio guadagnare denaro o avere una bella casa, improvvisamente potevo quasi farne a meno, ma era diventato per me di vitale importanza aiutare quella gente e, visto che da così lontano non potevo farlo, non riuscivo più a tranquillizzarmi. Inizialmente avevo pensato di adottare un bambino, ma poi mi sono resa conto che così sarei stata d’aiuto solo a lui. Per questo motivo ho convinto mio marito, che non riusciva più a vedermi così scontenta e preoccupata della vita che stavo vivendo, e abbiamo investito denaro per poter fondare questa associazione; dunque siamo ripartiti ed ora eccoci qui.”.

Qual è stata la cosa che più ti ha colpito la prima volta che sei stata qui a Zanzibar? Qual è stata, quindi, la prima cosa che avevi in mente di cambiare?

“In realtà, ciò che più mi ha stupito quando sono venuta qui per la prima volta non è stata tanto la sporcizia o le case fatte di fango nonostante fossimo nel ventunesimo secolo, ma la mentalità della gente del luogo: parlando e stringendo amicizie, sono rimasta stupita dal fatto che per loro quasi non c’è differenza tra lo sporco e il pulito, oppure che non hanno, diciamo, la cultura dell’accumulo, ma pensano a guadagnare quei pochi scellini, magari con l’elemosina che qui non è vista per niente in modo negativo, per poter vivere la giornata. Ho provato a fargli capire, per esempio, che la sporcizia per le strade o addirittura sulle spiagge limitava il turismo, una cosa su cui loro dovevano contare poiché è quasi la sola che gli permette di arricchirsi e di progredire veramente, ma è difficile modificare uno stile di vita o un modo di pensare quando esso è così diffuso e radicalizzato, almeno che, ho pensato, non fossimo intervenuti sui giovani. Non sopportavamo la visione di questi ultimi a chiedere l’elemosina, a vagare senza pensare al futuro, sebbene col sorriso sul volto Per questo motivo abbiamo deciso, per prima cosa, di investire sulle scuole.”

Qual’era, quindi, il tuo progetto? Avete fatto passi da gigante da allora?

“innanzitutto volevamo creare delle scuole degne di essere chiamate tali, in quanto erano solo delle capanne, prive di banchi, di sedie e addirittura di bagni e di acqua. Per prima cosa, quindi, abbiamo pensato che fosse necessario portare l’acqua. Abbiamo costruito una scuola con un pozzo, ma dopo poco tempo, la pompa dell’acqua è stata rubata. Siamo rimasti sconvolti e molto delusi, cercavamo di far capire alla gente che tutto quello che avevamo fatto era per il futuro dei loro figli, che loro dovevano salvaguardarlo e non distruggerlo. E questo è stato solo uno dei tanti episodi di vandalismo, perché, come dicevo prima, loro non concepiscono la necessità di dover guardare anche al domani, ma si accontentano di poter vivere la giornata. Abbiamo pensato quindi che bisognava per prima cosa istruire le maestre. Sul muro esteriore di ogni scuola che costruivamo, eravamo soliti disegnare il mondo, e siamo rimasti sconvolti quando ci siamo accorti che le insegnanti erano ignare dell’esistenza di altre terre al di fuori di Zanzibar. Potrei stare qui a raccontarvi per ore di episodi come questi. Abbiamo provato in tutti i modi a dare il buon esempio, ad aiutarli, ma comunque, prima o poi, ci saremmo scontrati inevitabilmente con una cultura troppo diversa dalla nostra; sembrava quasi che loro non volessero essere aiutati, che era loro abitudine vivere in quel modo e gli andava bene, non avendo niente e non volendo niente di più. L’opposto degli occidentali insomma! Incredibile come, anche loro, abbiano così tante cose da insegnare a noi”.

Quali sono ora le vostre impressioni dopo cinque anni? Che cosa avete intenzione di fare?

“da una parte, siamo soddisfatti del nostro lavoro che, sebbene abbia avuto scarsi risultati, è stato fatto con impegno e siamo consapevoli del fatto che non potevamo davvero fare niente di più. Dall’altra, invece, siamo stanchi di trovarci quasi di fronte ad un muro. Coloro che potevano aiutarci, che siano persone appartenenti al governo o locali, non lo hanno fatto e noi avevamo bisogno innanzitutto della loro collaborazione. Nonostante la delusione, però, riesco comunque ad essere anche comprensiva; capisco che forse gli stiamo chiedendo troppo e troppo in fretta come, per esempio, se chiedessimo ad un europeo che vive nella lussuria, di lasciare tutto e, non so, andare a vivere in un convento. Sono quindi un po’ amareggiata, ho lasciato tutto, i miei figli (che di certo qui non avrebbero potuto continuare gli studi), la mia casa, il lavoro eccetera, e non ho ottenuto il risultato sperato. Nonostante ciò, sono comunque legata a questo posto e a questa gente, ma penso, un giorno, di tornare a Brindisi”

Elena Pierfederici