L’altra faccia della Città Eterna

In fuga con un fuoristrada, poi gli spari alla polizia. Nessun ferito. Teatro dell’accaduto è Tor Bella Monaca, quartiere della periferia Est di Roma, che nella notte tra il 10 e l’11 Marzo ha visto protagonisti di un inseguimento quattro uomini ancora ricercati. Ennesimo sintomo di una malattia ben più grave e radicata nel tempo. La sparatoria di martedì sera mette nuovamente in risalto la situazione preoccupante delle periferie romane, zone che soffrono l’abbandono ormai da anni.

La legalità è distante mentre sono all’ordine del giorno spaccio, sfruttamento della prostituzione, furti e rapine. Figlia di ignoranza e degrado, la delinquenza si fa strada in tutte le sue forme e spesso coinvolge anche ragazzi giovani. Sebbene i dati del Ministero dell’Interno sull’intera zona di Roma siano incoraggianti (in calo la criminalità del 3% dal 2017 al 2018 e del 6,2% dal 2018 al 2019) restano comunque preoccupanti le indagini specifiche sulle periferie. Secondo le stesse statistiche, nel VI Municipio (dove si trova anche Tor Bella Monaca) le attività criminali collegate alla droga sono aumentate rispetto all’anno scorso dell’85%, nel VII del 63% e nell’XI del 56%. Si distinguono invece VIII e X Municipio per l’aumento delle rapine (rispettivamente +35% e +15%), in calo in tutti gli altri quartieri.

Questi dati dipingono un quadro allarmante della situazione sociale nelle zone periferiche della Capitale. Responsabile di questo fenomeno è in primo luogo la povertà. Il bisogno di soldi e di riscatto sociale insieme alla prospettiva di una scorciatoia, ormai banalizzata e resa ordinaria in questi contesti, porta molti giovani a condurre una vita criminale, priva di ordine e giustizia, fondata solo sulla legge del più forte. Non è una logica sana per la comunità, eppure appare sempre più diffusa. Senza dover arrivare alla delinquenza, si sta propagando una fierezza e un senso di appartenenza deleteri: si è creata una morale speculare in negativo che fa della povertà (sia economica, ma soprattutto culturale) il proprio cavallo di battaglia. In un’ottica del genere è facile arrivare a legittimare, secondo l’etica della strada, la criminalità. Parallela a questa categorica e generalizzata chiusura nei confronti dei “ricchi”, si è sviluppata un’altra chiusura del tutto paradossale. A quanto pare l’immigrazione è la fonte di tutti i problemi del nostro paese, compresa la crisi nelle periferie. La chiusura quindi guarda in alto, alla casta dei privilegiati, ma anche in basso, a chi sta ancora peggio. Non si parla di politica, ma di egoismo. Assumersi le proprie responsabilità? Mai. Più comodo dare la colpa a qualcun altro, meglio delegare tutto all’uomo che risolve (o meglio, che dovrebbe risolvere). Con questo non intendo dire che la classe dirigente non abbia le sue colpe né che tutti gli immigrati siano brave persone; semplicemente ritengo necessario focalizzare l’attenzione sulle vere ragioni dei problemi, che spesso vanno ben oltre gli slogan gridati ad una piazza.

Il vero problema è che mancano punti di riferimento e in particolare i giovani crescono in un contesto nel quale i criminali sono i vincenti e i cattivi sono altri. In questo la scuola dovrebbe avere un ruolo più decisivo: dovrebbe diventare un punto fermo per le nuove generazioni piuttosto che un modello dal quale distaccarsi il più possibile. Le statistiche del MIUR rivelano un consistente aumento del tasso di dispersione scolastica a Roma (+19,6% in quattro anni) e questo non fa altro che confermare nuovamente il fallimento del sistema educativo. La scuola nelle periferie dovrebbe cercare di formare globalmente i ragazzi come individui per colmare dei vuoti educativi che in altri contesti sarebbero gestiti dalle famiglie. Quindi, oltre alla necessità di portare avanti campagne già avviate per la sensibilizzazione alla legalità, è fondamentale stabilire un dialogo migliore tra le persone e le autorità. I giovani devono avvicinarsi alle istituzioni e sviluppare una coscienza civica e in questo i professori svolgono un ruolo fondamentale.

Riqualificazione, però, non vuol dire condanna. Troppo facile imporre controlli degni di una dittatura. Il cambiamento deve avvenire con consapevolezza da parte di chi cambia. De André cantava “Se non sono gigli, son pur sempre figli vittime di questo mondo.” Ed è proprio questo mondo che va migliorato, ma con umanità, per fare in modo che le sue vittime non diventino a loro volta carnefici. La cultura è l’unica arma che abbiamo per smettere di gridare alle piazze e per iniziare a farle ragionare.

Luca Delorenzi