Libertà è un aquilone all’improvviso – Racconto

Le luci dell’alba si illuminavano in fondo alle colline. Rebecca seguiva uno stormo di rondini che dall’erba alta si erano levate in aria agitando le loro piccole ali. Era una ragazza sempre molto sorridente e sdolcinata, con dei capelli rasta dorati e un viso d’angelo. Una famiglia di caprioli la guardava attentamente e poi si allontanava spiccando agili salti con le zampe ossute. A poco a poco Rebecca poteva vedere dei puntini nitidi in lontananza, forse pastori di pecore che, al cenno di un saluto con la mano, le rispondevano sollevando le loro. Non si udiva alcun rumore nel bosco, se non il richiamo cupo, quasi come un brontolio, del cinghiale che non si faceva vedere o il suono di un branco di mucche che pascolavano più avanti. Una serie di torrenti che si snodavano giù per le ripide colline alimentavano il fiume, che era grande quasi come un campo da basket ed era punteggiato da ninfee verde scuro. A circa trenta metri dalla riva c’era un cervo immerso fino alle ginocchia nell’acquitrino che masticava dell’erba viscida che gli sgorgava dalla bocca insieme alla nera lima. Rebecca risalì il fiume camminando tutto il tempo nell’acqua scura e stando attenta a non sfiorare la vegetazione che sporgeva dalla sponda. Era bagnata fradicia dalla testa ai piedi, ma in quel luogo regnavano una semplicità e una serenità che la confortavano. Raggiunse la strada e si distese a pancia in giù all’ombra di un ampio melo e si mise spensierata a rincorrere con il dito una famiglia di scarafaggi. In quell’istante si ricordò del tempo che aveva trascorso con Roberto e di come quel motivo di felicità fosse andato in frantumi per sempre. Le venne un groppo alla gola e si abbandonò all’idea di piangere, ma non sempre la tristezza si esprime in lacrime. Ripensò alle lunghe cavalcate nel maneggio del padre di Roberto, alle corse nel vigneto nascosto dietro la collina, alle gite in montagna con la vecchia Panda gialla e alla tanta, tanta voglia di stare insieme. L’improvvisa partenza di Roberto per l’Australia aveva distrutto il meccanismo che si era creato da tempo tra loro: sdraiata sotto l’albero, la tenera ragazza non riusciva ancora a capacitarsi di quello che era accaduto. Era ormai giunto il mezzogiorno e Rebecca non se ne era nemmeno accorta: persa nel bagliore del giorno, in quell’Eden lontano dalle fabbriche e dai rumori della città, era assorta nei suoi pensieri e si chiedeva in quale maledetto giorno avesse mai incontrato Roberto. Il sole si fece più caldo e Rebecca sbadigliò e si stirò le mani una dopo l’altra. Salì su un albero che sporgeva da una rupe aggrappandosi ai saldi rami con le mani per non scivolare, si sdraiò su un tronco e lasciò penzolare i piedi nudi nel vuoto. Il cielo si era colorato di un rosa chiaro che profumava di vita. Sistemandosi frettolosamente i capelli rasta grondanti di sudore, Rebecca si fermò a riflettere sul perché Roberto avesse deciso di lasciarla e partire per l’Australia. Avrebbe potuto opporsi alla partenza, avrebbe potuto benissimo rifiutare per seguire il sentimento che provava per lei. Il tempo speso insieme a lui era indelebile. Preferiva forse vivere lontano da lei? Preferiva forse accettare quel misterioso lavoro nel continente, rinunciando per sempre a una vita spensierata con lei? Era chiaro che la risposta fosse scontata: Roberto era egoista e sfrontato, e non sarebbe mai tornato indietro da lei nemmeno in ginocchio. Intanto Rebecca era sprofondata in un sonno molto pesante. Un pastore tedesco dalla pelliccia color marrone scuro con qui e là delle chiazze nere si era alzato sulle zampe posteriori e stava abbaiando a Rebecca che, avendo udito quel frastuono, si svegliò di soprassalto. Il gregge di pecore che aveva visto in lontananza sulla collina aveva circondato l’albero e la ragazza poteva vedere, affacciandosi in basso con cautela, delle chiazze bianche che giravano intorno a loro e talvolta si scontravano. Immediatamente dopo vennero i pastori che all’alba l’avevano salutata e si scusarono per il fastidio arrecatole. Naturalmente Rebecca non provava alcun disagio, anzi, si divertiva a vedere lo scorrere di pecore sotto di lei, quindi rassicurò i pastori che si allontanarono portando dietro di loro l’intero gregge. La fanciulla, dopo averli scrutati dai vertici del grande albero, tornò sul terreno asciutto. Si era stufata di riposare, ora voleva camminare. Scalciando ciottoli verso il burrone sotto la strada, percorse la via asfaltata che portava al suo paese natio, molto piccolo ma grazioso; le rimaneva ancora un tempo sufficiente prima di tornare a casa dai suoi adoratissimi genitori per pranzo. Passò una macchina che pareva una Mustang e poi un’altra e un’altra ancora. Poi passarono due biciclette, una dietro l’altra. Rebecca venne sorpassata dalle vetture e dalle biciclette, ma non aveva nessuna fretta, quindi continuò a camminare in direzione della luce soffusa che irradiava nel cielo. In lontananza si sentiva il fischio dell’autobus che riportava a casa le scolaresche più scalmanate. Una famigliola di volpi dal manto rosso acceso scorrazzava per la strada portandosi dietro la preda fieramente vinta e uccisa con l’intenzione di divorarla. Era buffo come quella scena le ricordasse lei e Roberto che nascondevano i biscotti e le fette di torta sotto i vestiti per non farsi scoprire dagli adulti e per poi mangiarle di nascosto. Chissà in quel momento dov’era Roberto: magari era già su un aereo di prima classe, o magari aveva già raggiunto l’Australia… oppure aveva cambiato opinione e stava per tornare da lei sperando in una riconciliazione. Non sapeva come né perché, ma Rebecca aveva la stranissima sensazione che quest’ultima ipotesi fosse la meno plausibile. Se il suo amato avesse deciso di tornare, a quest’ora probabilmente sarebbero già tornati insieme e lei non avrebbe motivo di gemere della sua solitudine lungo la strada verso casa. Era oramai giunta l’ora di pranzo e Rebecca, puntuale come al solito, aveva battuto i pugni per ben tre volte sulla porta di casa. I suoi genitori le aprirono e la fecero accomodare, la minestra calda stava ancora finendo di cuocere. I genitori non parlavano spesso con Rebecca della faccenda di Roberto, forse perché non lo ritenevano necessario, ma sicuramente immaginavano quello che la loro figlia stava passando. Ad un tratto, mentre stava succhiando il brodo di verdure dal cucchiaio stando attenta a non fare il minimo rumore, Rebecca vide dalla finestra un aquilone giallo e arancione che si dondolava tra le nuvole. Pervasa da un senso di libertà, si alzò di scatto dalla sedia in mogano e si avviò verso la porta. I suoi genitori dapprima furono turbati da questo suo insolito comportamento, ma poi lasciarono che svanisse in un paio di minuti e uscisse di casa. Si rendevano conto di quello che un aquilone, per giunta giallo e arancione, significasse per il passato suo e di Roberto: quando erano uniti tutto il giorno, spesso si divertivano a far volare l’aquilone degli zii di campagna in mezzo ai colori del  cielo. Rebecca procedeva a passi lenti e marcati perché sapeva che l’aquilone non sarebbe andato via. Era lì per lei, aspettava solo lei. Spostò rovi e cespugli che le intralciavano il cammino e vide quell’uomo che correva intorno a una secca radura e girava su sé stesso facendo ondeggiare l’aquilone. Forse era proprio quella scena che la fece smettere di pensare a Roberto: il fatto che l’uomo le ricordasse uno dei tanti momenti passati con Roberto le aprì la mente a una nuova possibile vita, senza di lui. Non stavano più insieme, poteva disperarsi quanto voleva, ma ciò non avrebbe cambiato le cose. Rassegnata ma felice, Rebecca si allontanò mentre il rombo colorato continuava a volteggiare sugli alberi.

 

 

Francesco Cosenza

Classe 4G – Liceo Classico Galileo di Firenze