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Inaspettate rivelazioni esistenziali a un chitarrista svogliato – Racconto

Uscì di casa un po’ turbato e scombussolato: la notte precedente non aveva proprio dormito. Si strinse la cintura sistemandosi i pantaloni calanti e varcò la soglia, entrando nel frastuono e nel ronzio della città che si stava risvegliando. Attraversò velocemente la strada ed entrò in una di quelle vie secondarie di cui nessuno conosce il nome, ma che tutti utilizzano, andando diretto alla fine della stradicciola. La conosceva fin troppo bene per fermarsi a osservare l’intonaco scrostato dai muri e accumulato sul ciglio dello stretto marciapiede, ogni tanto interrotto da larghe e profonde pozzanghere, presenti giorno e notte, estate e inverno: per tradizione. Svoltò a destra, poi a sinistra e ancora a destra, senza pensare a ciò che faceva, come un veicolo con il pilota automatico. Giunse di fronte alla vetrina del negoziò, l’osservò un po’ per capire se tutto fosse a posto ed entrò; non prima di aver dato la solita moneta al mendicante accoccolato nel cantuccio a tre metri dall’ingresso, appena arrivato alla propria postazione e sicuramente più puntuale del tram il lunedì mattina.

Dentro venne immediatamente investito da un’ondata di calore, sia fisico che emotivo. Sentì subito che le dita intirizzite dal freddo di quella mattina di dicembre stavano riacquistando gradi celsius e che la punta del naso era un po’ meno rossa, gli occhiali meno appannati. Ma intuì altrettanto facilmente che era in un luogo familiare, sicuro, sincero; aveva abbandonato le umide viottole incassate tra alti fabbricati grigi, come il Colorado dentro al Gran Canyon, indifferenti al suo passaggio anche dopo anni di incontri quotidiani; lo sguardo dei passanti annoiati dal lavoro, gli automobilisti assonnati, i bambini lagnanti e i genitori irritati; tutto questo aveva lasciato il posto a chitarre, bassi, batterie, pianole e pianoforti, tamburi e tamburelli, trombe, trombette, tromboni, e qualsiasi altro vezzeggiativo possa venir in mente. Invece dell’azzurro sporco del cielo c’era il rosso fiammante delle chitarre elettriche e il nero lucente delle code di pianoforte, il colore dorato dell’ottone dei sassofoni, il bianco plasticoso dei flauti dolci e il grigio metallico di quelli traverso. Quel giorno però non rispose alle occhiate ammiccanti delle buche delle chitarre col solito sguardo premuroso di una madre per i figli: quel giorno era diverso.

Andò da Marco, il suo nuovo dipendente, che stava sfoggiando le sue abilità musicali con il basso di fronte a un pubblico non indifferente di ragazze.

«Non ti pago per far concerti nel mio negozio… Su! Rimettilo a posto e va’ ad aiutare quel signore alla batteria». Non c’era, però, rabbia nel suo tono, che non era neanche severo: era come se chiedesse di farlo per non costringerlo a usare le maniere forti. Quel giorno infatti si sentiva svuotato di tutta l’energia vitale, era proprio stanco e svogliato. Era forse la prima volta in vita sua che era irritato dalle domande dei clienti e quel giorno, se fosse dipeso da lui, sarebbe ritornato a casa senza chiudere il negozio o far nient’altro. Fece un gesto di stizza ricordandosi che quella sera avrebbe dovuto suonare a un concerto: non ne aveva la minima intenzione.

Per la prima volta in vent’anni si chiese perché avesse scelto di dedicare la sua vita alla musica e se ne fosse valsa e ne valesse ancora la pena.

 

Nonostante tutto si mise comunque ad aiutare un po’ di clienti, a sbrigare delle faccende, a dare qualche consiglio. Non riusciva però a concentrarsi e nulla sembrava attirare la sua attenzione.

Ad un certo punto, però, vide un bambino, di circa dieci anni, che stava impalato davanti a una chitarra appesa al muro. La chitarra non era delle migliori del negozio: era una buona chitarra, niente di più. Il bambino sembrava, invece, pensarla diversamente: se ne stava ad ammirare quello strumento quasi fosse una reliquia sacra, a bocca spalancata, con un rivolo di bava che scendeva fino al mento. Lui era sul punto di chiedergli di spostarsi, se non che vide gli occhi di quel bambino: spalancati, incantati, vivevano per quello strumento e quello strumento sembrava costruito solo per essere contemplato da quegli occhi. Quel ragazzino gliene ricordò un altro che circa trent’anni prima stava nella stessa adorazione in un altro negozio di articoli musicali e con la mano strusciava su e giù sui pantaloni. Strusciava come se avesse in mano un plettro, come se il suo fianco fosse le corde della chitarra, e con l’altra faceva strane posizioni che probabilmente volevano essere accordi; all’improvviso chiudeva gli occhi e si lanciava in un lunghissimo e difficilissimo assolo, e riaprendo gli occhi era Jimi Hendrix a Woodstock davanti a una folla in estasi, e poi li richiudeva, li riapriva ed era se stesso adulto davanti a migliaia di persone a suonare le sue canzoni, tutti l’applaudivano e gridavano il suo nome.

Poi riaprì gli occhi: il bambino era andato via, c’era un po’ meno gente, Marco era ancora dove l’aveva mandato, il negozio era uguale.

 

Ora sapeva il perché. Com’era bello sognare…

 

 

Davide Agnelli

Classe 2D – Liceo Classico Galileo di Firenze