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“I giovani speranza del futuro” per mantenere viva la Memoria

27 gennaio 1945, Auschwitz. Le truppe sovietiche della 60ª Armata del I fronte Ucraino, guidate dal generale Pawel Kuroczkin, aprirono i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz e mostrarono al mondo la più grande fabbrica di morte costruita dai nazisti nel cuore dell’Europa.

Il Liceo Statale “E. Boggio Lera” di Catania, nonostante le limitazioni imposte dalla pandemia, ha promosso valide iniziative per invitare studentesse, studenti e docenti a riflettere sull’importante lezione che la Storia ci ha trasmesso, in un intreccio tra Passato, Presente e Futuro.

Tra queste, l’incontro dell’Associazione Etnea Studi Storico Filosofici ha riscosso un grandissimo successo per la capacità degli esperti di coniugare la divulgazione storica e letteraria con il dialogo e la riflessione collettiva.

Il Giorno della Memoria – incontro dell’Associazione Etnea Studi Storico Filosofici 

Il 27 gennaio si celebra il Giorno della Memoria, momento fondamentale del nostro calendario civile, perché vengono ricordati, come ha deciso il Parlamento italiano, “lo sterminio  e le persecuzioni subite dal popolo ebraico e le deportazioni di militari e politici nei campi  di sterminio nazisti, la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione dei cittadini ebrei, gli italiani  

che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in cam pi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio e a rischio della propria  vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. 

L’Associazione Etnea Studi Storico Filosofici, nonostante le limitazioni imposte dalla pandemia da Covid19, ha ritenuto necessario riflettere su questi temi e approfondirli organizzando un incontro – seppure a distanza- con gli studenti e le studentesse catanesi, significativamente intitolato “I giovani speranza del futuro” e ripetuto in due giornate (27 gennaio  e 3 febbraio).  

Il primo relatore, prof. Salvatore Distefano, ha esordito ricordando che quest’anno la celebrazione cade in un momento drammatico sia per la pandemia, sia per le crisi politico-sociali che stanno vivendo alcuni grandi Paesi del mondo occidentale. Come scriveva Umberto Eco, occorre, perciò, vigilare perché “l’Ur-Fascismo, o il fascismo eterno, può ancora  tornare sotto le spoglie più innocenti: il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indi ce su ognuna delle sue nuove forme, ogni giorno, in ogni parte del mondo”. Il relatore, in  particolare, ha guardato al 1945 come anno periodizzante, che si aprì con l’abbattimento  dei cancelli di Auschwitz e continuò con molteplici avvenimenti epocali: la conferenza di  Jalta -che vide protagoniste le tre maggiori potenze alleate: Stati Uniti, Gran Bretagna,  Unione Sovietica-, la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, la resa della Germania nazi sta e infine le bombe atomiche statunitensi su Hiroshima e Nagasaki. Si è, quindi, interrogato sul ruolo dell’Italia fascista e della Germania nazista e sul loro rapporto, contestando  l’idea che gli italiani siano stati “brava gente”. Una narrazione avallata per tanti anni, men tre la storia dimostra esattamente il contrario, a partire dalle leggi razziali del 1938, con le  quali il fascismo decretava l’allontanamento degli ebrei dagli impieghi pubblici, coeve del  “Manifesto della razza”. Il relatore ha poi ricordato il “contributo” autonomo del nostro Paese allo sviluppo dell’universo concentrazionario, soprattutto nei territori dell’ex Jugoslavia.  Una riflessione importante, perché mentre le stragi nazifasciste fanno ormai parte essenziale di una memoria storica “verificata”, la stessa cosa non può dirsi di quelle fasciste.  

Il prof. Distefano ha fatto quindi riferimento allo stretto legame tra storia coloniale dell’Italia, iniziata subito dopo l’unità (1861), e avvento del fascismo, spesso descritto come una  potenza colonizzatrice da operetta, quando in realtà si trattò di un regime “debole” sì, ma  non per questo meno feroce e pericoloso. E di questa crudeltà e ferocia (come può testimoniare il fatto che vennero utilizzate anche le armi chimiche) fecero le spese le popolazioni aggredite (Somalia, Libia, Etiopia, Albania, Grecia, Balcani). Si trattò di stermini di  massa perpetrati dalle truppe e dai civili italiani, guidati dai gerarchi e voluti dal duce in  persona, che doveva dimostrare lo spirito militaresco dal popolo italiano.  

Il relatore, infine, ha concluso ricordando la lotta Partigiana, che contribuì in maniera decisiva al riscatto del Paese, riscatto definitivamente consolidato con la stesura e l’entrata in vigore della Costituzione, e ribadendo il valore della testimonianza e della memoria come  fondamentale fattore identitario di una collettività.  

La seconda relatrice, prof.ssa Simona La Spina, ha proposto una riflessione sul modo in  cui l’idea della memoria e della testimonianza abbia permeato di sé, seppure in modo di verso, le opere di Lia Levi e Primo Levi.  

La relatrice ha innanzitutto sottolineato che raccontare è stato, per molti sopravvissuti,  una necessità paragonabile ad un bisogno elementare e che anche Primo Levi e Lia Levi  hanno risposto, ciascuno a proprio modo, alla medesima esigenza -che è comunicativa e  intima insieme – di dare testimonianza e di raccontare.  

La prof.ssa La Spina ha quindi illustrato la vita e l’opera di Lia Levi, con particolare riferimento al romanzo d’esordio della scrittrice, Una bambina e basta, pubblicato per la prima  volta nel 1994, in cui Lia Levi racconta la propria storia (dai 7 ai 12 anni) affidandone la  narrazione in prima persona ad una bambina ebrea che si trova all’improvviso costretta  

ad affrontare un trauma, quello della persecuzione razziale, che non è capace di com prendere. Nei suoi romanzi, dunque, la Shoah -pur non direttamente presente- vive nel l’ombra minacciosa che la promulgazione delle leggi razziali, con gli avvenimenti che ne  conseguono, proietta sulla vita quotidiana di uomini e donne comuni, fagocitandoli.  

Per spiegare cosa abbia indotto l’autrice a scrivere dei propri ricordi solo a distanza di  quasi cinquant’anni, o cosa l’abbia trattenuta dal farlo, la relatrice ha ricordato le parole  della stessa autrice, la quale ha detto di aver potuto rispondere all’esigenza di scrivere  perché finalmente i tempi erano maturi grazie ad una “memoria finalmente condivisa” , e di  essersi decisa a farlo anche per colmare il vuoto di attenzione e di interesse che sembrava  particolarmente forte negli anni ‘90 del Novecento, quando non si parlava quasi più delle  leggi razziali, o addirittura venivano negate.  

Passando poi a Primo Levi e al suo primo romanzo (Se questo è un uomo, 1947) , la prof.  La Spina ha sottolineato come la sua scrittura abbia sostanzialmente due radici: il bisogno  di condividere una testimonianza che spinga a meditare («perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre»);  l’urgenza comunicativa di «raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi». In quest’ottica -sottolinea la  relatrice- la parola appare come valore supremo da recuperare e a cui aggrapparsi, ed è una parola  cristallina, essenziale e sempre esatta e potente ma, al tempo stesso, sentita come dolorosa mente insufficiente. La scrittura di Levi, scabra e oggettiva -influenzata certo dalla sua professione di scienziato – ma mai fredda, diventa così secondo la relatrice la cassa di risonanza di due temi fondamentali: da un lato, il processo di annullamento e disumanizzazione cui sono sottoposti i prigionieri – un processo reso evidente dalla rasatura dei capelli  e dalla cancellazione del nome, sostituito da un numero tatuato sul braccio, simile al marchio impresso a fuoco sul bestiame-; dall’altro, il modo in cui la vittima possa reagire alla  disumanizzazione, vigilando per conservare ciò che resta della sua umanità, identificato di  volta in volta nell’esercizio critico della ragione, nella conoscenza, nella capacità di rac contare e tramandare la memoria, veri e propri baluardi contro l’annientamento.  La prof.ssa La Spina ha concluso ricordando le parole di C. Todorov, teorico della lettera tura, filosofo della storia e della politica morto nel 2017, secondo il quale Levi non si ac contenta di rievocare gli orrori del passato, ma si interroga – a lungo, con pazienza – sui 

significati che tali orrori hanno oggi per noi, ed è proprio in questo atteggiamento verso il  passato che sta la sua lezione più preziosa.  

Nella seconda parte dell’incontro, studenti e studentesse hanno avuto modo di porre domande ed esprimere riflessioni su alcune tematiche che più avevano suscitato il loro interesse: il valore della memoria e della testimonianza nell’attuale contesto storico, le caratteristiche del negazionismo, la retorica degli “italiani brava gente”, il rapporto tra fascismo  e nazismo, l’approccio della storiografia a nazismo e comunismo, il male come categoria  morale e storica.  

Al termine del dibattito, il prof. Antonino De Cristofaro, moderatore dell’incontro, ricordando le parole di Liliana Segre sulla memoria come vaccino contro l’indifferenza, ha ribadito  con forza che proprio da questa definizione bisogna partire per attribuire il senso più autentico e profondo alla celebrazione del Giorno della Memoria.