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Storia di un sopravvissuto allo sterminio, mio nonno Lorenzo, numero 195344

Di Giulia Quagliotto 

Le guerre non sono fatte solo di ciò che si trova nei libri: alleanze politiche e tattiche militari, personaggi influenti ed eventi che hanno fatto la storia. C’è molto di più! In particolare, la Seconda guerra mondiale non coinvolse solo l’esercito e i governanti, ma soprattutto le persone comuni. Queste non volevano la guerra, eppure si sono ritrovate coinvolte senza avere il potere di fermare le atrocità che venivano commesse silenziosamente nei campi di concentramento.

Molti hanno vissuto quest’esperienza, ma pochi sono riusciti a raccontarla. La maggior parte è morta nel tentativo di sopravvivere. Altri non volevano rivivere quegli orribili giorni una volta a casa. Altri invece hanno raccontato la loro storia, tra questi c’è Lorenzo Girardi. Questo me lo ha insegnato proprio lui, mio nonno, identificato nel campo col numero 195344.
Riuscì a tornare a casa nell’estate del ’45 dalla Germania dopo essere stato liberato dagli americani. Era irriconoscibile da quanto era magro, ancora stremato dalla fatica e con solo la voglia di dormire nel suo letto, fino a quando l’avesse risvegliato il canto del gallo. Era da due anni che non dormiva veramente, due anni passati in Lager svegliandosi su un letto di legno, in una baracca piena di persone in condizioni disumane. Lavorare tutto il giorno, 365 giorni all’anno, col caldo e col freddo, con la pioggia e con la neve. Mangiare, o meglio bere, brodaglie piene di sabbia con qualche verdura. Finché la morte ha accolto molti tra loro. Ma tutti, senza distinzioni, cercavano di ritardarla il più possibile. Più volte, quando, con l’avvicinarsi della fine della guerra, la situazione migliorò, rendendo meno stringente la sorveglianza, riuscirono a procurarsi delle patate rubandole dai fossi dove i contadini le nascondevano. Una volta andò bene. La seconda quasi vennero scoperti. La terza un contadino sparò loro e perciò smisero di provarci. Il rischio di rimanere feriti era troppo alto.

Durante quei due anni gli vennero assegnati diversi lavori: ammucchiare sacchi di zucchero da 101 kg per i primi mesi; poi caricare su dei vagoni bombe e granate (da 50 o 75 kg) dopo averle riempite di tritolo; infine in una polveriera riempire e distribuire casse di munizioni. La cosa peggiore però era la polvere micidiale di tritolo che gli fece venire la pancia di un colore giallastro! Fortunatamente non lo uccisero, ma gli fecero dei bagni freddi e riuscì a guarire. Le forze, nonostante la giovane età, lo stavano abbandonando, ma ad aiutarlo c’erano le fasce mollettiere per sostenere le gambe. Queste gli salvarono la vita poiché gli permisero di lavorare ed essere utile al Reich era l’unica cosa che lo potesse tenere in vita. Per questo le conserva ancora oggi nel cassetto del comodino.

Lui sopravvisse, ma per molti che arrivarono in quel campo non fu così. Ad esempio, mentre lavorava alla polveriera, arrivò un gruppo di bimbe ucraine, tra gli 8 e i 10 anni, magrissime e sfinite dalla fame e dal freddo. Queste chiesero loro del cibo che però non poterono offrire dato che non ne avevano nemmeno. Un’altra sera arrivarono centinaia di uomini curvi per il gelo e anche questa volta non riuscirono ad aiutarli. Questo periodo lo ha temprato, infatti a 96 anni è ancora in ottima forma, infatti adesso il Covid non gli fa molta paura perché la morte l’ha già vista in faccia. Non vedeva l’ora di tornare a casa eppure quando gli hanno offerto la possibilità ha rifiutato. Mussolini cercava soldati per la Repubblica di Salò, così chiese agli italiani internati di arruolarsi. Per le loro condizioni, accettare voleva dire sopravvivere, rifiutare morire. Solo il 2% accettò. Tutti gli altri ormai avevano capito che Mussolini, assieme a Hitler, era il vero nemico e quindi scelsero di combattere, pur passivamente, con il loro no. Lorenzo Girardi all’inizio elogiava il duce e credeva alle sue promesse, come tutti gli altri ragazzi istruiti dalla scuola fascista. Quando venne chiamato alle armi era fiero di combattere per quella patria che gli avevano insegnato così tanto a difendere anche con la sua stessa vita. Iniziarono a instaurarsi i primi dubbi solo il giorno dell’armistizio, 8 settembre 1943. Quando sentì la notizia fu felice. La guerra è finita! Poi però scoprirono che Vittorio Emanuele III e il generale Badoglio erano scappati al Sud poiché i Nazisti avevano occupato tutto il Nord Italia, così lui e i suoi compagni rimasero bloccati in caserma vicino a Fiume privi di qualsiasi ordine. Dopo un po’ arrivarono altri soldati italiani dalla Jugoslavia ai quali dovettero dare la notizia dell’impossibile ritorno a casa. La delusione si lesse chiaramente in quegli sguardi che non riuscirà mai a dimenticare. Era sembrata la fine della guerra, era l’inizio degli anni più tremendi della sua vita.