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Testimonianze dal Vajont: scavare nella memoria con Giampaolo Gallina

Di Angela Zanoni

Giampaolo Gallina, nato il 15 aprile 1937, prestò servizio militare a Belluno negli anni sessanta, durante i quali vi fu la strage della diga del Vajont.

Si ricorda dove era e cosa stava facendo quando le hanno comunicato dell’accaduto e che sarebbe dovuto andare a svolgere il suo compito?

Certamente. Era il 9 ottobre del 1963, io ero in caserma e stavo ascoltando la radio, quando interruppero le trasmissioni per annunciare che era crollata la diga del Vajont. Io subito sono rimasto perplesso perché, essendo studente di geologia, avevo seguito tutto l’iter della diatriba che c’era stata tra i vari geologi e i costruttori della diga. Giorgio Dal Piaz, imminente geologo, aveva detto “La diga fatta qui, non crollerà mai, però non si può fare perché c’è un pericolo di frana dei monti prima della diga”. Purtroppo sono prevalse le ragioni economiche e la diga è stata fatta. In poco tempo è stata costruita e dopo circa sette anni, è successo ciò che è successo. Io ero in caserma, come stavo dicendo, e subito sono stati allertati gli alpini di Belluno, di Bassano e di Feltre. Inoltre sono stati avvisati anche gli alpini di Cuneo. Al mattino si sono recati sul luogo del disastro. Io avevo il compito di raccogliere tutte le informazioni che i vari tenenti recuperavano dai loro soldati e dovevo batterli a macchina. Quindi il mio lavoro è iniziato alla sera del giorno 10 di ottobre del ’63.

Dove si trovava rispetto alla diga? Quale è stato il percorso dell’acqua?

Come dicevo, mi trovavo a Belluno, alla caserma degli alpini. Longarone invece si trova sulla valle del Piave, quindi da Belluno bisogna andare a Ponte delle Alpi e girando a sinistra si arriva a Longarone. La distanza è di circa quaranta chilometri, e a Ponte delle Alpi è dove si è fermata la massa d’acqua che ha trasportato detriti, corpi ed altre macerie.

Come vi è giunta la notizia che l’acqua era fuoriuscita dalla diga? Come è stata poi divulgata la notizia all’interno del vostro reparto?

Sono stati subito allertati i soldati. Erano in tenuta da guerra e al mattino, di buonora, sono stati preparati i camion e sono partiti. Dai loro riassunti forniti, però, risulta si siano fermati a Ponte delle Alpi poiché più su di lì, non esisteva più strada. L’acqua aveva portato via tutti i sentieri e bisognava proseguire a piedi, oppure si poteva arrivare da Nord con i camion e trasporti.

Ha detto che l’acqua ha portato via tutto: siete mai stati sicuri di aver ritrovato tutti i corpi?

Quando sono arrivati gli scavatori, hanno provato a scavare, ma si sono fermati subito, perché c’era il pericolo di dilaniare i corpi sotto la ghiaia, i massi e tutti i detriti delle case crollate. Allora si proseguì scavando tutto a mano. Era un lavoro immenso, un lavoro faticoso, però con l’aiuto dei pochi superstiti e di tre battaglioni di alpini, sono riusciti a farlo in circa tre mesi. Il paesaggio che hanno trovato era proprio desertico. Sembrava fosse passata una ruspa che aveva portato via tutto. Tra gli abitanti di Longarone e dei paesetti vicini, erano in casa solamente le donne e i bambini, perché c’era una partita importante di calcio quella sera, e gli uomini erano andati tutti nei bar o in osteria, perché allora di televisioni nelle case ve n’erano poche. Coloro che erano in casa, con l’onda che si è alzata sopra la diga, hanno sentito uno spostamento d’aria, che li ha portati fuori. Questa folata d’aria, addirittura li ha privati dei vestiti, li ha spogliati, per cui si trovavano poi i cadaveri nudi, sotto terra, assieme agli altri detriti. Infatti, dei duemila morti, ce ne sono quattrocento di dispersi, e tra tutti, circa cinquecento erano bambini.

Quali sono stati dunque gli ordini che avete ricevuto?

Più gente possibile per portarla a scavare a mano, ed era un lavoro tremendo, perché trovavano un cadavere, magari fatto a pezzi, o sotto le macerie, dovendolo poi tirar fuori, cercare di identificarlo in qualche modo e dovevano portarlo in un sito, dove venivano tutti distesi. Questi soldati piangevano, avevano degli shock traumatici perché pensavano a quei cadaveri che avevano una famiglia, che avevano dei familiari superstiti e che forse non potevano essere nemmeno identificati, quindi sepolti in luoghi comuni. Ogni sera arrivavano in caserma i tenenti che mi depositavano gli appunti dove c’erano i numeri di morti e anche le descrizioni di oggetti come forchette, cucchiai, radioline, di oggetti che potevano essere collegati a questi cadaveri. Io poi dovevo trascrivere tutto e ne è venuto fuori un fascicolo, che ora è rimasto in caserma. I soldati che arrivavano, anche alle dieci di sera, dovevano rifocillarsi e dormire poco, per ripartire la mattina presto, ed erano propri sfiniti.

C’è stato qualcuno che proprio per queste ragioni ha chiesto di potersi ritirare?

Che sappia io no, perché i militari non possono ritirarsi. Devono eseguire degli ordini anche a costo della vita. Certo è che avevano bisogno di supporto psicologico perché erano traumi non indifferenti.

Crede di poter dire che più della metà delle persone che andavano, tornavano scosse?

Si, scosse interiormente, ma molto scosse. Trovare questi cadaveri nudi, in mezzo ai sassi, era come un lavoro di archeologo che doveva pulire intorno e poi prendere la salma e portarla via. E già questo indica un grande sforzo di volontà, di tutti quelli che lavoravano lì, perché c’erano anche i superstiti e parenti che da fuori venivano ad aiutare. I cadaveri sono stati trovati fino ai successivi quaranta chilometri, a Ponte delle Alpi. Quindi l’acqua è stata proprio un’ondata tremenda che ha raso al suolo tutto. So che c’era una mia parente che aveva una villa, della quale non è rimasto niente.

Sono mai venuti archeologhi o studiosi dopo la strage ad esaminare il terreno per capire se magari ci fossero cadaveri sotterrati?

Che sappia io no, però purtroppo c’era della gente, tanta gente, che curiosa, andava a vedere. Questo io lo trovo abbastanza di cattivo gusto, perché cosa c’è da vedere? C’è da piangere di una tragedia del genere, non da vedere come fosse un film o qualcos’altro.

Come tornavano i soldati alla sera?

Mi ricordo solamente che questi soldati che ritornavano la sera sfiniti. Si buttavano in branda e al mattino erano in piedi con la sveglia alle sei.

Una volta tornati, i soldati cercavano un modo per distrarsi, oppure pensavano a ciò che avevano visto, confrontandosi?

Tra di loro certamente si raccontavano i fatti che erano accaduti. Ma a me non hanno mai detto niente anche perché il mio ufficio era a parte, dove c’era tutto l’ufficio direzionale con il generale, comandante di brigata e vari capitani e colonnelli. Quindi io ero staccato da loro, anche dalla mensa, perché loro arrivavano tardi e non c’era possibilità di parlarci.

Come crede che siano riuscite a superare tutto ciò che hanno visto i superstiti della strage e chi è andato a prendere quel poco che rimaneva?

Con il tempo. Il tempo è la medicina d’eccellenza, per certe cose. E dopo, con il loro carattere montano, si sono dati da fare subito per ripartire. Sono stati aiutati, con aiuti statali, e hanno incominciato subito la ricostruzione di Longarone.

Lei sentiva e leggeva ciò che gli altri vedevano: come è che ha vissuto la strage senza aver constatato di persona ciò che era?

Quello che mi riportavano mi ha scosso profondamente, perché, sapere che questi giovani, di diciannove o vent’anni, dovevano passare dieci, dodici ore a contatto con questa miseria, con questa devastazione che è avvenuta in parte anche per cause umane, faceva sentire dentro di me questi ragazzi, come fossero miei fratelli che tornavano da un lavoro devastante. Con qualcuno di loro ho anche parlato, perché lo conoscevo, e mi dicevano che quando sei là, tu lavori come un automa. Però dentro c’è qualcosa che non puoi esprimere, perché il dolore che ti assale è talmente grande che ti prende totalmente.

Avrebbe preferito vedere con i suoi occhi?

Non è che avrei preferito, non avrei proprio potuto andare a vedere. Io ero soldato ed ero comandato. Il mio lavoro era quello e io dovevo assolverlo. D’altra parte, la mole di documenti che mi portavano, mi occupava ben oltre la giornata successiva. Allora si batteva tutto a macchina, non c’erano le macchine di oggi. Erano macchine meccaniche e dovevo fare sei copie, quindi dovevo battere con molta forza e con velocità, altrimenti la sesta copia non si vedeva.

Se invece avesse potuto scegliere, cosa avrebbe fatto?

Mi sarebbe “piaciuto” vedere come erano le cose, non per curiosità, ma per sentire quello che sentivano gli altri. Ciò per immedesimarmi in loro, nel compito grave che avevano da compiere.

Quali sono state le principali conseguenze della frana? Fino a dove si sono sentiti i suoi effetti?

Gli effetti della frana si sono sentiti prima della diga, perché l’ondata si è riversata prima sul versante opposto, dove ci sono i paesi di Erto e Casso. Lì è arrivata al limite dei paesi e qualche casa è anche stata portata via. Però il danno grande è stato fatto a valle, cioè quando questa massa d’acqua immensa si è precipitata giù e ha riempito totalmente l’alveo del fiume ed è trasbordata andando a prendere dentro di sé tutto il paese di Longarone, proseguendo verso le case dei pendii circostanti.

Crede che anche i cittadini di altre città che non sono state colpite abbiano sentito una grande perdita?

Questa tragedia ha colpito tutta l’Italia come dolore. Duemila morti, erano una quantità immensa di persone. E quindi tutta l’Italia è andata in lutto, anche perché ci sono state delle trascuratezze umane per cui la diga ha tenuto, però la frana si è precipitata facendo il disastro.

La notizia la si venne a sapere subito oppure furono prima informati i militari e solo giorni dopo anche tutto il resto dell’Italia?

Io l’ho sentita alla radio, mentre ero ad ascoltarla a letto ad ascoltarla, poiché quella sera non ero uscito. Certamente i superiori miei, saranno stati avvertiti con la radio militare o con i telefoni dai sindaci vicini, perché hanno dovuto organizzare tutti gli interventi per il giorno dopo. Quella notte penso che i capitani, il generale e altri ancora non abbiano dormito, per organizzare e avviare tutta la macchina dei soccorsi.

È mai andato presso la diga?

Non subito, perché non me la sentivo di tornare in quel luogo. Però negli anni successivi si, ma ogni volta che si va a Longarone si pensa a molte cose. “Chissà cosa c’era qua” e allo strazio dei superstiti che andavano in cerca, senza punti di riferimento, di dove poteva essere stata la loro casa. Cercavano qualcosa che potesse fargli pensare “la mia casa era qui”, ma non ne erano sicuri. Uno non sapeva più dove era stata la sua casa, dove era il suo campo.

Cosa si sente di dire in merito a quello che è stato l’errore di costruire lì la diga?

Io mi baso su quanto hanno detto i geologi. Il professor Dal Piaz ha detto assieme ad altri che la diga non sarebbe crollata. Infatti, la diga è tuttora incastonata in una valle molto stretta e a doppia volta, come una botte con la pancia rivolta verso il torrente, e non poteva spostare le montagne per crollare. Difatti la diga è rimasta quella che era, con lievi danni nella parte superiore, la strada, ma quella che era la parte in cemento della diga, è rimasta intatta. Purtroppo invece si è avverato quello che loro avevano previsto. Avevano fatto delle gallerie di ispezione per andare in profondità delle montagne e avevano notato questa fragilità del terreno, incline alle frane. Ora la diga è ancora lì ma piena di terra, quindi non solo è stato un disastro umano, ma anche un investimento fallito.

Quella che è stata la tragedia della diga del Vajont si pensa sia dovuta al fatto che il livello dell’acqua lì presente, fosse stato diminuito di alcuni metri troppo rapidamente: potrebbe esprimere il suo pensiero?

Per un principio di equilibrio, fin che c’era l’acqua alta, questa faceva da pressione contro la montagna e impediva che la stessa s’abbassasse. Abbassando l’acqua, levando quindi questo rinforzo che faceva pressione, è stata accelerata la caduta. Quindi è stato questo l’errore e di chi ha dato gli ordini. L’autore era in America in quel periodo, quindi ci sono stati tanti responsabili. Ci sono stati processi, condanne e assoluzioni.

Potrebbe raccontare quale era la difficoltà nel riportare a macchina tutti gli appunti?

Le calligrafie che talvolta si faceva fatica a leggere, perché erano tutti fogliettini di soldati che li davano ai loro tenenti. Quindi la difficoltà è stata leggere oltre che battere a macchina.

Cosa le ha fatto capire, da ciò che le veniva riportato, che la situazione era molto grave?

Che i morti erano straziati, irriconoscibili praticamente. Infatti ce ne sono quattrocento non conosciuti ancora, e che non saranno mai riconosciuti.

È possibile che alcune case ora costruite siano sopra corpi che non sono mai stati trovati?

Può darsi. Ma i soldati hanno scavato fino al fondo del torrente, perché il Piave non era profondo lì, quindi non dovrebbero esservi rimasti cadaveri. In ogni caso l’onda, prima ha portato via case e cadaveri e poi anche quello che restava l’ha portato via.

Per gli altri soldati, tornare lì a lavorare giorno dopo giorno, provocava sempre le stesse reazioni, oppure con il tempo la sensazione era differente?

Io penso che il dolore si riproponga sempre. Perché se noi pensiamo, ritrovare un bambino mezzo sepolto, doverlo prendere tra le braccia e portarlo insieme ali altri cadaveri in un luogo diverso, è un trauma tremendo. Perché sono vite umane, non sono oggetti.

Cosa può insegnare la frana del monte Toc?

Credo abbia insegnato che, come ho imparato durante gli anni di università frequentando la F.U.C.I., lo studio, o la preparazione ad un lavoro, non siano fini al lavoro stesso, né di una sistemazione, ma di una preparazione per svolgere bene il tuo lavoro, onestamente e quindi senza cedere a pressioni esterne.

Che valore aveva la diga per coloro che abitavano le zone circostanti?

Per loro era stato un fiorire di occasioni per migliorare la loro vita, perché avrebbe portato al ritorno di un sacco di operai disposti a lavorare. Lavorare ignaramente, perché non sapevano chi c’era sopra, a decidere cosa far fare loro. Quindi, anche se alcuni paesi erano destinati a scomparire, sommersi dall’acqua, le persone erano soddisfatte di ciò che avveniva. Era sempre una nuova forma di guadagno e di sistemazione per tanti giovani.

Solo chi l’ha voluta e ordinata, è stato sanzionato o anche chi l’ha costruita?

I responsabili poi sono stati condannati, ma chi l’ha costruita era solo un mezzo. L’impresa che costruisce riceve degli ordini e li esegue. È chi dà gli ordini che ha la colpa, ma neanche. È chi sopra decide, ai vertici.

L’ha “scossa” il fatto che delle persone che avevano studiato questo, avessero commesso tale errore?

Gli errori non li hanno fatti i geologi. Gli errori li hanno fatti chi voleva la costruzione della diga, la società elettrica di allora, la S.A.D.E..

La diga, era voluta a tutti i costi?

La volevano a tutti i costi, pur avendo le documentazioni in mano, hanno deciso di costruire. E l’hanno costruita a tempo di record, in sei o sette anni, e la più alta d’Europa, quindi per l’Italia era anche un vanto, una firma.

Crede che anche il Sud abbia vissuto la frana avvenuta nella diga del Vajont, come il Nord?

Ma certamente. La solidarietà, quando è possibile, porta le persone, anche da luoghi distanti, nel posto, a collaborare. Condividono il dramma e diventano sorelle e fratelli di quelle persone. Quindi certamente hanno sentito la tragedia, come fosse capitata a loro. Perché a loro era già successo, ci sono state frane che hanno portato via parte di villaggi, parte dei cittadini, perché anche quelle erano costruite in zone dove non si sarebbero dovute costruire.

Cosa si ricorda del primo giorno?

L’attesa. L’attesa che tornassero i soldati la sera per descrivere cosa era successo. Allora non c’erano i cellulari e le fotografie arrivavano dopo due giorni. Vedere in foto ciò che era successo era molto sentito anche da noi che rimavamo in caserma. Io non ero l’unico. C’era la ristorazione, che doveva portare da mangiare ai soldati. C’era anche il medico militare, che doveva essere presente quando tornavano alla sera.

I verbali scritti sono rimasti lì?

Non ho portato a casa niente io, certamente gli atti anche della caserma ci sono. Una copia, forse la prima, è stata archiviata. D’altra parte erano cose da non ricordare. Da ricordare per le persone che c’hanno rimesso la vita o i parenti che hanno dovuto sopportare tutto, ma sono cose che sarebbero da dimenticare. Da ricordare come monito, ma da dimenticare come soggetti.