L’università serve davvero nel modo lavorativo?

Ma l’università serve o non serve? Conosco un tale che non si è laureato, lavora da anni e sta benissimo! Ma ne conosco anche un altro che ha preso la laurea, ci ha messo pure un sacco di tempo, e adesso è disoccupato!

Ecco, secondo me le cose non sono così semplici, non è bianco o nero. In genere, quando si va al bar, dal barbiere, ma anche quando si discute su internet si semplificano moltissimo delle situazioni che sono, invece, molto più complesse.
Partiamo dal presupposto che, secondo me, si fa un uso improprio della parola “servire”. Che
vuole dire “servire”? Un esempio stupido: “Il deodorante serve? Tu lo metti, però, c’è quello là che è palestrato, c’ha il fisicaccio, e se andate in spiaggia lui rimorchia più ragazze di te. Vedi che non serve il deodorante? Serve andare in palestra!” Ecco, mi sembra un argomento buttato lì, il discorso servire o non servire. Il titolo universitario può essere utile ad accedere nel mondo del lavoro, assolutamente, ma come ogni strumento va utilizzato bene, va valorizzato. Non è che tu c’hai il tuo curriculum che lo vedi come un tronco d’albero cavo, dove tu sei uno scoiattolo e i tuoi titoli sono le noci e le ghiande per cui tu accumuli di modo che, quando arriverà l’inverno del mondo lavorativo, sei già pronto. Questo atteggiamento accumulativo, secondo me, è molto nocivo. Forse poteva valere in passato, nella generazione dei nostri genitori, in cui il mercato del lavoro completamente diverso. Ed è qui che si arriva al nocciolo della questione. Dagli anni ’60 ai ’90, non erano tante le persone che acquisivano una laurea. Con il tempo, fortunatamente, tutti hanno acceso alle lauree triennali che esistono da, circa, una decina d’anni. Il mercato del lavoro è “saturo” di persone che hanno, bene o male, una laurea un titolo universitario di qualsiasi tipo. Rispetto al periodo dei nostri genitori, sono tantissime le persone che hanno una laurea, un titolo con cui ti saresti distinto durante gli anni ’70. Adesso, invece, serve banalmente per stare a galla, per fare un certo tipo di lavoro.

È una cosa sbagliata? È un male necessario? Secondo me è positivo l’accesso per tutti a titoli, allo studio, però questo vuol dire che se vuoi puntare a fare carriera, utilizzando i tuoi titoli di studio come cavallo di battaglia… beh serve uno sforzo in più.

Una laurea triennale, magari anche una laurea specialistica non servono più, non sono più utili a distinguerti come in passato e devi aggiungerci qualcosina. Proprio qui, si infilano i tanti corsi professionalizzanti che si trovano su Internet, che allegati anche alla laura ti permettono di fare uno scatto in più durante la propria carriera. C’è da dire anche che nel frequentare l’università ci sia una componente aggiuntiva, una componente esperienziale che ti cambia anche dal punto di vista personale, ti dà una forma mentis più ampia in un certo senso. Con le università in Europa c’è la possibilità di fare tanti scambi europei grazie alle borse di studio Erasmus, tante persone che sarebbero rimaste nel proprio paese hanno la possibilità di viaggiare, di vedere altre culture e di uscire dalle proprie ristrettezze mentali che, immancabilmente, si hanno se si rimane sempre a vivere nello stesso posto.

L’università ti può cambiare e formare come esperienza, ci sono tante persone che devono abbandonare la propria cittadina natale per andare all’università e viaggiare ti fa evolvere. Cambiando, cambia il proprio approccio col mondo del lavoro. L’università può essere utile anche per questo motivo, ma soprattutto per la teoria, un approccio un po’ più teorico in questo mondo che ormai è diventato iper-pratico, iper-pillolina, no? Ecco, può fare la differenza! Prendiamo la scienza. Adesso, ci sono tantissime infografiche che girano su Facebook che ti prendono delle pilloline scientifiche, te le buttano lì… e ti senti esaltato perché, magari, tra i vari hobby che una persona può avere, c’è la scienza e segue quella pagina Facebook che fa divulgazione spicciola. Ecco, un conto è fruire di divulgazione spicciola, un conto è approfondire con titolo, approfondire con uno studio sistematico affiancato da ricerche e da un rigore scientifico che deve essere rispettato formalmente. Quel di più che si fa, quell’approccio che si usa e la teoria utilizzata, rimangono scolpite nella mente.

In una brutta giornata, in cui la tua esperienza di lavoro personale finisce, è la teoria che ti fa portare a casa la pellaccia! Perché la teoria è l’esperienza di altre persone formalizzata e sistematizzata, tanto è vero che le persone che non hanno tanta teoria alle spalle hanno difficoltà a ripetere ottimi risultati, ottenuti in passato e a rendere scalabili i propri traguardi.
Con i social network stiamo vivendo l’epoca del sensazionalismo, delle storie eccezionali che attirano l’attenzione, rimangono più impresse rispetto a storie ordinarie, di cui ci aspettiamo un finale banale. Le storie di gente come Mark Zuckerberg oppure Steve Jobs ci rimangono impresse, perché hanno mollato l’università, fondato le proprie aziende e fatto i miliardi. Il sotto-testo sembra essere: “Visto quanto sono intelligenti loro e quanto sono stupidi quelli che, invece, restano a casa a fare i compiti?”, il sotto-testo vero e proprio è che queste persone sono l’eccezione che conferma la regola e, a volte, puoi avere delle buone intuizioni.
Ultimo punto, ma non per importanza. Secondo me, la teoria dell’università dovrebbe essere
associata alla pratica del lavoro, maturando un certo numero di anni di esperienza sin dall’università.
L’università non è solo teoria, è un mondo diverso dal mondo del lavoro, mentre il mondo del lavoro è tutto quanto basato su pratiche fattuali.
Non c’è tutta questa fuffa, anche perché la fuffa c’è ovunque! C’è tanta fuffa nel mondo dell’università tanto quanto nel mondo del lavoro.

Lorenzo Di Dio
V DSA