DANTE, LA VILTÀ COME ANTICO VIZIO O MODERNA VIRTÙ?

Di Alessandro Cendron

Il secondo canto dell’Inferno della Divina Commedia mette in evidenza la viltà di Dante, che non si sente pronto per il lungo viaggio che lo attende. Sincera consapevolezza dei propri limiti o peccato?

«”S’i’ho ben la parola tua intesa”, rispose del magnanimo quell’ombra, “l’anima tua è da viltade offesa». Queste le parole che Virgilio rivolge al poeta, nel canto secondo dell’Inferno. Dante, all’inizio dell’opera, sembra avere qualche ripensamento, si sente inadatto ad affrontare un viaggio di valore e dimensioni così importanti. La sua paura deriva dalla consapevolezza che solo personaggi dal calibro di Enea e San Paolo avevano avuto la possibilità, da vivi, di visitare l’oltretomba. Dunque, dinanzi a spiriti tanto magni, Dante dubita di poter essere alla loro altezza. Infatti, egli non sa ancora di essere stato scelto da Dio e che quindi
non c’è niente da temere e, per questo motivo, ha definito «folle» il viaggio che lo attende. Questo termine si deve considerare veramente pregnante nel lessico dantesco almeno per due motivi: primo perché denota tutta l’insicurezza del poeta in quel momento della narrazione; secondo perché chi abbia una certa memoria letteraria non può non leggerlo alla luce del «folle volo» di Ulisse nel canto XXVI. Quindi, pare realmente che Dante non si senta pronto, ritiene che ciò che lo aspetta lo possa portare, usando la sua stessa metafora, in una selva ancora più scura e selvaggia, che cioè lo faccia ricadere in uno stato di perdizione ancora più profondo. D’altronde il «folle volo» dell’eroe di Itaca è simbolo proprio di un uomo che pecca della famosahybris, cioè di tracotanza. È il peccato di chi, dimenticando di essere mortale, brotósavrebbe detto Omero, pretende di elevarsi al livello divino (di ciò si macchiarono anche Icaro, Tantalo e Lucifero, per citarne alcuni). Dante teme quindi di deviare dalla volontà di Dio, non sapendo che il viaggio è stato voluto da Dio stesso.

Tuttavia, una lettura più moderna potrebbe rivedere tale viltà come una sana presa di coscienza dei propri limiti e un atto di umiltà nei confronti di due figure (Enea e San Paolo) che Dante percepisce necessariamente come superiori. Qui, però, emerge una questione di fondo che segna una sorta di cesura tra il nostro tempo e la mentalità medioevale in cui Dante inevitabilmente era immerso. Infatti, se noi oggi definiamo con l’aggettivo “umile” una persona che tende anche a sottovalutarsi o a considerarsi meno rispetto all’opinione altrui, per Dante non era così, tanto è vero che, trovandosi nel limbo e passando in rassegna poeti come Omero, Lucano, Ovidio e Orazio, si considera al sesto posto tra loro per «cotanto senno». Al giorno d’oggi, uno scrittore che si veda immediatamente dopo, per esempio, Leopardi, Foscolo, Montale, Ungaretti e Manzoni, sarebbe sicuramente marchiato come altero o presuntuoso. Se invece Dante si fosse posto, per il concetto che abbiamo noi oggi di “umiltà”, all’ultimo posto tra le penne citate, si sarebbe macchiato della colpa inversa rispetto a quella di hybris: infatti, anche la errata concezione di sé “per difetto” era considerata un peccato, al pari della tracotanza. Ecco allora che considerare Dante umile potrebbe essere un’interpretazione fuorviante alla luce del suo tempo storico e del sistema di valori all’interno del quale viveva. In fondo, per riprendere l’accusa di Virgilio, la viltà medievale è un concetto che noi moderni forse abbiamo perso o che rivediamo nella
cosiddetta “falsa modestia”, alla quale però non è legata una connotazione così negativa come lo era per la viltà di cui Dante viene accusato. Per questo motivo, sarebbe improprio parlare della viltà come di una “virtù moderna” e, parallelamente, accusare Dante di superbia quando si colloca al sesto posto in quella “classifica”, diremmo oggi, dei poeti che incontra nell’Inferno, questo perché oggi è cambiato il modo in cui ci percepiamo, la maniera che ognuno ha di guardare a sé.