L’arte medica nell’età della tecnica

Il progresso scientifico ha permesso alla medicina di ottenere risultati che in altri tempi sarebbero apparsi miracoli. Ma siamo sicuri che, con il prodigio della tecnica, qualcos’altro non sia andato perso? Rispetto agli altri saperi scientifici, che cosa distingue quello del medico? Lo scorso dicembre abbiamo avuto modo di riflettere su queste tematiche al Laboratorio interscolastico di lettura del testo filosofico, dove in collegamento da remoto professori e studenti hanno scambiato osservazioni e idee a partire da alcuni brani tratti dall’opera Il medico nell’età della tecnica, del medicofilosofo tedesco Karl Jaspers. I problemi sollevati con nitida profondità da questa lettura sono sensibili e di grande attualità, forse oggi ancor più che a metà Novecento, quando scriveva Jaspers. Il completo dispiegamento della tecnica nella realtà sanitaria occidentale sta infatti avverando e portando alle estreme conseguenze le criticità messe in luce dal filosofo. Ma vediamo ora di tracciare una panoramica più ampia e dettagliata dei contenuti affrontati al Laboratorio.

Mentre l’antica concezione della medicina si fondava su convinzioni religiose o spirituali, su determinate visioni del mondo ed orizzonti etici, quella moderna si basa sulla scienza, configurandosi come un sapere autonomo ed efficace grazie ai continui progressi che compie la ricerca. Tuttavia l’incontrollato processo di tecnicizzazione ha incluso e compromesso lo svolgimento dell’autentica professione medica, mutandone la funzione e il significato. L’azione del medico infatti viene oggi organizzata in forma di impresa: tra lui e il paziente non c’è più un rapporto umano, di vicinanza, ma si ergono quei grandi apparati che incrementano l’omologazione generale, riducendo gli uomini a funzioni determinate di un grande meccanismo, difficile da individuare con chiarezza ma altrettanto vincolante. In questa prospettiva le possibilità del giudizio critico, la spontaneità personale e relazionale, sono profondamente minate. L’umanità presente nell’idea di un’assistenza medica pubblica e generalizzata, acquisisce infatti un volto di disumanità a causa della costante mancanza di tempo, dell’eccessivo carico lavorativo e della superficialità dell’indagine diagnostica.

Questa tendenza a trascurare l’aspetto umano si accentua con la limitazione dell’agire medico in ossequio al dogma dell’esattezza – proveniente dal campo della ricerca scientifica – portando ad una incapacità di percezione dell’elemento vitale, biologicamente e umanamente dato. Inoltre, la possibilità di un sempre maggiore approfondimento che la specializzazione tecnica offre, apre ad uno scenario di interminabili analisi nel quale è incerto chi possa avere il ruolo di porvi una fine. Se il sapere tecnico progredisce e aumenta per la sua natura di per sé cumulativa, l’umanità si crea continuamente ex novo, a partire dall’immediatezza di tutti quei codici relazionali non programmabili che costituiscono il linguaggio dell’empatia e la base per la comprensione dell’altro, sul piano di un sentire comune. Così l’agire del medico si fonda su due pilastri fondamentali: il sapere tecnico-scientifico, e l’ethos umanitario. Appare ora chiaramente come curare sia una scienza ma anche un’arte complessa, che viene dimenticata nel momento in cui il medico assolve esclusivamente alla funzione di “tecnico del corpo”.

Accade così, ad esempio, che si fornisca di apparecchiature che analizzano il malato, senza che quest’ultimo comprenda il senso delle procedure a cui è sottoposto, negandogli ogni possibilità di portare a compimento quella maturità razionale che dovrebbe essere il presupposto del rapporto fra medico e paziente. La medicina, in definitiva, è una scienza difficile e controversa, in quanto la sua epistemologia si apre necessariamente al discorso esistenziale non appena si affermi la presenza di un’interiorità, per sua natura incommensurabile, nell’evidente limite di poter conoscere la sola materialità empirica del corpo. 

 

Di Daniele Cassarini