Costituzione: la donna lavoratrice ed il lavoro minorile

La Costituzione italiana, scritta dai membri dell’Assemblea Costituente ed entrata in vigore il 1°
gennaio 1948, costituisce la legge fondamentale del nostro Paese in quanto tutte le norme emanate
dal Parlamento si devono inderogabilmente ispirare ai principi in essa enunciati. Pertanto, la
conoscenza di regole, valori e diritti inviolabili dello Stato, basati sulla convivenza civile dei
cittadini, costituisce la premessa fondamentale per l’effettiva attuazione del diritto di giustizia nel
pieno rispetto delle libertà individuali.

Tuttavia, ritengo importante mettere in evidenza come, talvolta, alcuni diritti fondamentali, sanciti
dalla Costituzione, non vengano pienamente rispettati o interamente applicati, dando origine a
discriminazioni non più tollerabili in tempi moderni.

Ad esempio, il principio di uguaglianza morale e giuridica tra uomo e donna non viene osservato
del tutto; infatti, in ambito lavorativo, nei confronti delle donne vengono quotidianamente attuate
delle discriminazioni dovute al persistere di una cultura maschilista diffusa in quasi tutto il nostro
Paese, che pone la donna in posizione di inferiorità rispetto all’uomo. Purtroppo, questa condizione
di disparità continua ad essere in netto contrasto con quanto sancito nell’Art. 3 e, soprattutto,
nell’Art. 37 , entrati in vigore più di settanta anni fa ma che tuttora non sono completamente
applicati. Infatti, con l’approvazione dell’Art. 37, i membri dell’Assemblea Costituente hanno inteso
riconoscere alla donna lavoratrice gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni spettanti
al lavoratore, nonché condizioni di lavoro che, in ambito socio-lavorativo, consentissero il puntuale
svolgimento delle peculiari funzioni familiari e assicurassero una adeguata protezione anche al
bambino.

Con tale articolo, viene pienamente affermata l’uguaglianza formale tra lavoratrici e lavoratori e
quindi l’uguaglianza di genere già enunciata nel primo comma dell’Art. 3. La lavoratrice deve
beneficiare di una retribuzione uguale a quella dei suoi colleghi maschi, senza considerare come un
ostacolo per la donna i ruoli aggiuntivi di moglie e madre.

Nella prima metà del secolo scorso invece, tutto ciò costituiva una condizione molto sfavorevole
per le donne; infatti, le discriminazioni, basate sui vecchi modelli culturali, relegavano la figura
femminile all’unico ruolo di procreatrice (gravidanze numerose, assistenza ai bambini ecc.),
favorendo, di conseguenza, il cittadino di sesso maschile.
L’Art. 37 ha posto le prime basi per arginare tale squilibrio e mettere fine al doloroso fenomeno
discriminatorio.

Con il passare del tempo, il ruolo della donna nella società è notevolmente cambiato. Per molto
tempo la donna era stata ritenuta inferiore all’uomo sul piano giuridico, economico e civile,
rimanendo praticamente esclusa da molti diritti ed attività. Il suo unico ruolo era quello di madre
all’interno della famiglia ed il suo compito principale era quello di educare la prole e svolgere le
faccende domestiche. Nel passato infatti, la donna non poteva né amministrare il suo patrimonio né
ricoprire cariche pubbliche.

Così, negli anni settanta, le donne hanno iniziato a decontestualizzare la loro funzione dal solo
ambito domestico e si sono rese protagoniste nella lotta per la conquista dei propri diritti, iniziando
il difficile cammino di emancipazione. Le donne non dovevano più occuparsi soltanto della
famiglia, della cura della casa e dei figli, ma potevano aspirare alla realizzazione personale, a
studiare, a vivere indipendentemente e ad approcciarsi al mondo del lavoro, trasformando
radicalmente la figura sociale che avevano fino ad allora rappresentato.
Oggi le donne hanno la possibilità di svolgere anche lavori che fino a qualche decennio fa erano
considerati “da uomo” (medico, poliziotto, vigile, carabiniere ecc.) e possono esercitare un ruolo
nella società, nel mondo dell’impresa, nelle Università, nella Magistratura, nella Pubblica
Amministrazione, nel Governo ed in Parlamento.

Tuttavia, nonostante i diversi ed incisivi cambiamenti, sussistono, tuttora, palesi discriminazioni
salariali che ritengo essere in evidente contrasto con quanto enunciato nel citato Art. 37 della
Costituzione. Infatti, in alcune aziende si registrano ancora delle disuguaglianze di retribuzione tra i
due sessi e, tra le cause del differenziale retributivo, emerge la minore disponibilità delle donne nei
confronti del datore di lavoro per esclusive esigenze familiari. Così, le donne, indipendentemente
dal fatto che abbiano o non abbiano figli, sono retribuite meno degli uomini perché molte aziende
ritengono che possano essere meno produttive a causa di ipotetiche assenze sul lavoro derivanti da
responsabilità familiari. Nonostante i molteplici riconoscimenti ottenuti dalle donne nel corso della
storia in tutti gli ambiti lavorativi (tecnologico, scientifico, politico ecc.), persistono delle
discriminazioni di genere per disuguaglianza retributiva che evidenziano l’incapacità della figura
maschile di adattarsi e di accettare rapidamente i cambiamenti culturali.

Ritengo che questo tipo di discriminazione non sia più accettabile e che il nostro Paese debba
compiere ogni possibile sforzo per rendere fattibile la reale applicazione di una corretta parità
retributiva al fine di garantire equità e meritocrazia. Per evitare che il fenomeno di tale
discriminazione possa continuare a trasmettersi alle future generazioni, penso che sia fondamentale
insegnare alle bambine ed ai bambini, ma ancor prima alle famiglie, che la diversità sessuale dei
figli non deve essere discriminante, né provocare differenze educative o formative; solo così sarà
possibile realizzare una effettiva parità di genere, sia lavorativa che retributiva.
Purtroppo, in Italia, l’attuale emergenza sanitaria, dovuta alla diffusione del Covid-19, ha
evidenziato un ulteriore aumento delle disuguaglianze di genere. Infatti, secondo alcune statistiche
Istat, nel dicembre dello scorso anno, è stata registrata una riduzione dei posti di lavoro dello 0,4%
rispetto al mese precedente e quindi si è verificata una diminuzione di 101 mila unità lavorative: le
donne occupate sono diminuite di 99 mila unità, mentre per gli uomini la flessione è stata
circoscritta a duemila posti di lavoro.

Credo che questi dati siano più che allarmanti in quanto non è più tollerabile accettare che il 98% di
quanti hanno perso il lavoro sia donna. Per quale motivo le donne devono essere sempre le prime a
subire i nefasti effetti della crisi e ad essere sacrificate? Perché, pur vivendo nel XXI secolo ed in un
Paese sviluppato come l’Italia, le donne vengono considerate ancora inferiori rispetto agli uomini e
relegate a “compiti minori” in molti ambiti?
Oltre a tali disparità di genere in ambito lavorativo, un altro fenomeno discriminatorio diffuso in
Italia è il lavoro minorile. L’Art. 37 tutela anche i minori attraverso una normativa relativa al lavoro
salariato di fanciulli ed adolescenti per garantire loro la parità salariale. Infatti, lo Stato, da un lato,
impone l’obbligo scolastico fino all’età di sedici anni al fine di migliorare la formazione del minore,
e, dall’altro, consente il lavoro degli adolescenti in età compresa fra i 15 ed i 18 anni. Tuttavia, il
minore deve essere riconosciuto idoneo all’attività lavorativa da parte di un medico e gli deve
essere garantita la partecipazione ai corsi obbligatori fino al compimento del diciottesimo anno di
età ( per poter seguire attività formative professionali o per iniziare il percorso di apprendistato per
l’inserimento nel mondo del lavoro).

Purtroppo, nel nostro Paese è ancora molto diffusa la piaga del lavoro minorile perché molti
bambini vengono sfruttati nell’agricoltura, nella fabbricazione di prodotti falsi e in organizzazioni
malavitose. Infatti, credo che anche il secondo ed il terzo comma dell’Art. 37, riguardanti la tutela
dei minori, meritino una ulteriore e più approfondita attenzione da parte delle Autorità: i minori
devono essere protetti e preservati dai lavori pericolosi, faticosi e insalubri per la loro età. In
proposito, penso che le principali cause dello sfruttamento minorile siano l’ignoranza e la povertà e
che tutti i Paesi dovrebbero unirsi, non per difendere una razza, una Patria o una classe sociale, ma
per assicurare condizioni di vita dignitose a ciascun essere umano, attraverso sostegni economici
volti a migliorare situazioni socio-culturali drammatiche (costruzione di scuole, ospedali, centri
culturali, strutture ricreative ecc.).

Sfortunatamente, fin quando prevarranno gli interessi dei singoli, gli egoismi, le cattiverie, le
violenze gratuite e la cultura del profitto, il problema della tutela dei più deboli e sfortunati resterà
irrisolto.

Flavia De Luca