Tutto è arte?

Quando parliamo di arte non facciamo solo riferimento alle stanze vaticane di Raffaello, alle sculture di Michelangelo o alla famosa Gioconda di Leonardo. L’arte è un concetto molto più esteso: “Qualsiasi forma di attività dell’uomo come riprova o esaltazione del suo talento inventivo e della sua capacità espressiva”. Questa è la definizione più comune e immediata che ci fornisce un qualsiasi dizionario online. L’arte è anche la danza, oppure quei murales che vediamo per strada, impressi sugli edifici. È in sintesi la capacità di trasmettere una determinato soggetto, emozione o pensiero a un possibile spettatore. Le forme in cui queste opere vengono espresse si sono evolute sempre di più nel corso del tempo. In questo modo arriviamo a parlare di “musei digitali”. Questo nuovo genere di musei insoliti nascono a partire dalla fine degli anni 60, anni in cui prendono piede le prime forme di videoarte. Stiamo parlando di un nuovo modo di pensare all’arte, concezione nata soprattutto dalla necessità di coinvolgere anche chi ha problemi di mobilità o chi non può viaggiare per esempio. Questi musei accolgono, infatti, un’arte senza limiti, confini capace di coniare opere di libera interpretazione. Anche lo spazio in cui queste opere vengono riportate acquista sempre più importanza fino diventare parte dell’opera stessa. Un’ altra novità riguarda gli strumenti presi in considerazione che non rispecchiano più i soliti mezzi tradizionali, come il classico marmo o la tela, ma addirittura si inizia ad inglobare nell’arte anche utensili di uso quotidiano. Spicca in questo caso l’utilizzo dalla televisione, degli schermi che in quegli anni iniziavano a svolgere un ruolo significativo nella vita di tutti i giorni. Parliamo quindi di un nuovo mondo pronto a fare dell’arte un mezzo di comunicazione a 360 gradi. Lo scopo è innanzitutto quello di coinvolgere lo spettatore, il cosiddetto tema dell’immersività, espediente presente fin dall’età antica, applicato con stratagemmi prospettici o elementi simbolici. Ma l’arte contemporanea va oltre a questa vecchia concezione: si fa portatrice di un coinvolgimento anche fisico dello spettatore che deve arrivare quasi a perdersi nell’opera stessa. Un’immersività totale a questo punto. Esperienze del genere sono all’ordine del giorno all’interno del museo del Team lab di Tokyo. Un museo che riporta immagini e suoni che immergono lo spettatore del tutto in questi corridoi privi di un percorso prestabilito. Per molti potrebbe persino apparire confusionario, caotico e dispersivo. Arriva ad essere un’esperienza collettiva, lontana dal vecchio metodo di fruizione individuale di fronte a una tela di un Botticelli. Ma non è anche questa arte del resto?

L’argomento dei musei digitali è stato soggetto di approfondimento e discussione in classe. Se da una parte molti erano legati a una concezione più tradizionale di arte, altri si sono completamente immedesimati nel pubblico che popolava le stanze del museo di Tokyo nel vedere i video proposti dall’insegnante. “Un’arte per bambini, un parco giochi”, a detta della maggior parte dei miei compagni. Ma non è questo il bello dell’arte? Saper rivoluzionare i soggetti, coinvolgere nuovi strumenti e proporre nuovi modi di interpretazione e lettura dell’opera. L’arte stessa è l’arte del saper tramettere un emozione o un pensiero, un dialogo sempre mutevole tra spettatore ed artista che cambia a seconda del contesto o dell’epoca che si attraversa. L’arte è quindi senza tempo.

Nel parlare dei musei digitali abbiamo spaziato tra i vari artisti che si sono cimentati nella creazione di questo nuovo tipo di opere. Tra questi mi ha colpito particolarmente la capacità comunicativa e la simbologia da scoprire dietro le performance realizzate da Marina Abramovich. L’artista serba non si pone confini; anzi possiamo dire che il suo interesse sta proprio nel varcare i limiti della mente e le capacità del corpo. Un corpo dialogante, che viene esposto nelle sue diverse forme, movimenti ed espressioni. È l’artista stessa infatti a fare del suo corpo di un opera d’arte con l’aiuto di altri artisti che prendono parte nelle sue performance. Digitando semplicemente il nome e i lavori di Marina su Internet ci imbattiamo da subito in immagini bizzarre. Sono sicuramente rappresentazioni che suscitano tensione e suspance agli occhi di uno spettatore. Un arco brandito da Marina con la punta rivolta verso di sé in direzione del cuore, mentre l’artista tedesco Ulay tende la corda dall’altra parte. Lei stessa pronuncia le parole “dove io non ho il controllo” come descrizione dell’opera. Immagini senza dubbio suggestive che cercano di coinvolgere non solo lo spettatore da un punto di vista fisico, ma soprattutto psicologico. Come emerge anche dalle opere di questi artisti contemporanei, non esiste un unico linguaggio artistico e neppure un unico codice inequivocabile di interpretazione. Anche questa è arte, almeno per me.

Giulia Nuzzo IVC cl