Lo Stato italiano vieta la pena di morte in qualsiasi situazione, sia in ambito militare che penale. Ciò deriva dal fatto che la reclusione, in Italia, ha un duplice scopo: punitivo, ma anche rieducativo. Infatti, il detenuto, al termine della sua pena, dovrà poter essere in grado di reinserirsi in società, essendo stato punito per le sue azioni ai danni del prossimo, ma avendo anche avuto la possibilità di comprendere i propri errori e il modo in cui migliorarsi.
Molti Stati, però, ritengono utopico tale modo di pensare e accettano nel proprio ordinamento la pena di morte. Il modo in cui giustificano questa scelta è molto semplice: ogni organo umano ha il proprio compito: il cervello ragiona, l’intestino digerisce; ma cosa succede nel momento in cui una parte del corpo viene meno all’adempimento del proprio ruolo o è affetta da una patologia che può mettere a rischio l’intero sistema? Ebbene, si “amputa la parte marcia”. Allo stesso modo, lo Stato si libera delle persone che gli arrecano estremo pericolo.
L’argomento della pena di morte è tutt’oggi grandemente dibattuto. È giusto che chi non è più salvabile sia eliminato, o si rischia di abbassarsi allo stesso livello del criminale? Fino a che punto si può spingere la pena di morte prima che diventi un’arma nelle mani dello Stato per sottomettere i propri cittadini?
Non è un caso che, in Italia, la pena di morte fu reinserita ai tempi del fascismo. La dittatura, infatti, attraverso violenza e minacce, sfrutta il terrore arrecato alle persone, troppo spaventate dalle conseguenze per potersi ribellare. Questo è proprio quello che succede nei Pesi sottomessi dai talebani, che portano avanti il loro messaggio religioso, quindi teoricamente pacifico, attraverso la violenza bruta. La dittatura non potrebbe esistere senza la violenza. Un metodo governativo che concentra nelle mani di un singolo uomo e del suo “partito” tutto il potere e che non ammette un pensiero diverso dal proprio non trova modo di sopravvivere se non nella violenza. Nessuno sarebbe portato ad accettare che gli venga imposto un modo di pensare diverso dal proprio se all’imposizione non si accompagna una minaccia, per cui la storia della dittatura gradita da coloro che sono sottomessi non è altro che frutto della propaganda.
Ma, allora, come è possibile che in Paesi che si fanno vessillo della democrazia, sia ancora esistente la pena di morte? Infatti, la tale forma punitiva non esiste solo in Paesi sotto dittatura, che la applicano in maniera scellerata contro chiunque osi opporsi, ma anche in Stati come gli USA o il Giappone, che dovrebbero essere democratici. Una delle ragioni è certamente culturale. Basti pensare al fatto che i conquistadores, gli uomini che dall’Europa si recarono verso l’attuale America, erano persone senza un posto nel mondo, pronte a compiere qualsiasi gesto pur di ottenere ricchezza, per cui, per garantire la stabilità, la pena di morte era ritenuta necessaria, sopprimendo con la violenza altra violenza. In Giappone, d’altra parte, vige un modo di pensare estremamente severo, basato su una serie di normative che vogliono garantire la convivenza pacifica tra le persone, per cui non sono ammessi elementi di disturbo.
Ovviamente, la pena di morte dovrebbe essere l’ultima opzione, nel momento in cui non si può fare nient’altro per salvare il criminale e le vite messe in pericolo da quest’ultimo. Ma non è sempre così. È capitato spesso che, a causa del malgoverno e della corruzione, fossero uccise perché comunque si tratta di un assassinio- le persone sbagliate, o quelle di cui faceva più comodo liberarsi. Basti pensare alla morte su sedia elettrica a cui fu sottoposto un ragazzino afroamericano di circa 14-15 anni, ingiustamente accusato dello stupro e dell’omicidio di due bambine, sue vicine di casa. Al giovane non fu concesso un vero e proprio processo, né il beneficio del dubbio: era stato condannato già alla nascita, essendo afroamericano in una società razzista come quella americana. Settanta anni dopo, fu scoperta la sua innocenza. Come lui, molte altre persone furono condannate ingiustamente e ad altri, probabilmente accadrà lo stesso in futuro. Secondo molti, però, si tratta di casi sporadici, che sarebbe meglio evitare, ma che bisogna sopportare, non potendo fare a meno della pena in casi gravi, come omicidi o atti di terrorismo. Sono diversi, infatti, i punti di vista da analizzare. Se da una parte bisogna tutelare la vita umana, anche se si tratta di quella di un criminale, dall’altra c’è da pensare alla vita che è stata tolta e a quelle che sono state segnate per sempre da tali perdite.
Un esempio che ha fatto molto discutere le masse è quello dell’attentato terroristico avvenuto in Norvegia nel 2010 da parte del nazi-fascista Anders Breivik, che, vestitosi da poliziotto, uccise ben 77 persone, di cui gran parte adolescenti, e ne ferì un centinaio. L’uomo, che tutt’oggi sta scontando la sua pena di 21 anni, il massimo previsto dall’ordinamento norvegese, si professa completamente colpevole e fiero delle proprie azioni. Anzi, ciò che più volte ha ribadito fra interviste e processi è che si pente di non aver tolto più vite, invitando gli altri estremisti a fare ciò che lui ha fatto, nel nome di una libertà che, a detta sua, sta venendo loro privata a causa “dell’invasione islamica”, incoraggiata dalla politica aperta e tollerante dello Stato norvegese. Secondo buona fetta dell’opinione pubblica, Breivik, uomo giudicato perfettamente sano psicologicamente e consapevole delle sue azioni, meritava di morire, se non altro per fare giustizia alle numerose vittime e alle loro famiglie, ancora perseguitate dalle lettere di Breivik. Nonostante tutto ciò, lo Stato norvegese non ha mai considerato l’opzione di uccidere Breivik, perché il governo non ha la possibilità di scegliere tra la vita o la morte di un suo cittadino. Ma, quindi, come fanno gli Stati che non prevedono la pena di morte a garantire la sicurezza dei cittadini? Attraverso pene alternative, come l’ergastolo, presente in Italia, che prevede la detenzione di criminali molto pericolosi fino a data indefinita, da individuare nel momento in cui il condannato non rappresenta più una minaccia per la società. In Norvegia, invece, per esempio, la pena massima ammonta a ventuno anni, dopo cui avverrà un nuovo processo in cui la pena potrà essere confermata, oppure il detenuto potrà essere rimesso in società.
Nonostante si verifichino casi come quello di Breivik, in cui l’istinto umano, anche solo per vendetta, sarebbe portato ad uccidere, l’uomo deve essere in grado di contenersi nel nome della ragione, riuscendo a perdonare nel momento in cui il “peccatore” è pentito delle sue azioni e ha scontato la sua pena. Ciò è estremamente difficile e molte persone, o anche Stati, non sono disposti a farlo, seguendo ideologie differenti. Proprio per questo il dibattito relativo alla pena di morte non troverà un compromesso con grande facilità.
Mariavittoria Grieco, IIIC