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25 aprile, perché si festeggia e perché si portano avanti le lotte antifasciste

Il 25 aprile di 77 anni fa, cominciò la ritirata dei soldati tedeschi della Repubblica Italiana,  in seguito allo sfondamento della Linea Gotica da parte degli Alleati e all’azione della  Resistenza. Questo momento segnò la fine del nazifascismo e la riconquista della libertà in  Italia, che fu possibile solo grazie all’intensa lotta portata avanti dalla Resistenza, l’insieme di  movimenti politici e militanti che in Italia resistette con forza al nazifascismo. Migliaia di  uomini e donne persero la vita per un ideale, per ottenere la libertà a cui oggi siamo  abituatə. Ma la lotta antifascista non può ridursi a quel 25 aprile del 1945, la lotta  antifascista non può finire e non finirà fin quando esisteranno ancora coloro che limitano il  nostro diritto di esprimerci e di essere liberamente. La lotta antifascista non può finire  finché il nostro pianeta sarà animato dalle guerre in corso non solo in Ucraina, ma anche in  Palestina, in moltissimi paesi dell’Africa e del Medio Oriente, in Kurdistan. La lotta non  finirà finché vivremo in una società razzista, omofoba, classista e patriarcale, fino a quando  le nostre città, le nostre strade e le nostre scuole non saranno libere dalle provocazioni e  violenze fasciste.

1 febbraio 1945, diritto di voto alle  donne 

Il 1° febbraio 1945 l’Italia riconobbe il diritto di voto alle donne. Era  il 1° febbraio, quando la lotta per la conquista di questo diritto,  iniziata tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento sulla scorta  dei movimenti degli altri Paesi europei, raggiunse il suo tanto atteso obiettivo. Costituito il governo di liberazione nazionale, al termine  della Seconda Guerra Mondiale, le donne si attivarono per entrare a  far parte del corpo elettorale: la prima richiesta dell’ottobre 1944  venne avanzata dalla Commissione per il voto alle donne  dell’Unione Donne Italiane (Udi), che si mobilitò per ottenere anche  il diritto di eleggibilità (che verrà sancito da un successivo decreto  datato 10 marzo 1946). Si arrivò così, dopo anni di battaglie per il  suffragio universale, al 1° febbraio 1945. 

Questa vittoria, però, non sancì la fine della battaglia, ma piuttosto  rappresentò un punto di partenza: la parità non era stata raggiunta.  Nonostante il grande passo avanti, vi erano ancora donne  impossibilitate a godere di un diritto fondamentale, come le  prostitute schedate che esercitavano “il meretricio fuori dei locali  autorizzati”, e vi era ancora l’obbligo di compilazione di liste  elettorali femminili distinte da quelle maschili.  

Le elezioni dell’esordio furono le amministrative avvenute tra marzo  e aprile del 1946. L’affluenza femminile superò l’89%, e vennero  elette nei consigli comunali circa duemila candidate. La voce delle  donne iniziava finalmente a farsi sentire anche nei palazzi dello  Stato, le battaglie contro il divario salariale e la violenza di genere,  per la legalizzazione dell’aborto e del divorzio, le lotte  transfemministe e antirazziste acquisivano sempre maggiore  importanza. 

Migliaia di donne prima di noi hanno lottato tra umiliazioni e  discriminazioni, hanno perso la vita per portarci a dove siamo oggi.  Ed è nostro dovere portare avanti queste lotte negli anni, per non  dimenticare mai il loro sacrificio e per creare sempre più una società  dove nessunx sia lasciatx indietro. 

Perché tutti questi secoli di dolore non sono stati vissuti per  costringerci in una società dove non siamo libere di indossare ciò  che vogliamo, di amare chi scegliamo e di mostrare il nostro corpo 

come preferiamo. E non si può, non si deve dimenticare, che questa  lotta riguarda tuttx, nessunx esclusx.

LORENZO PARELLI, UCCISO  DALLA SCUOLA-AZIENDA 

Aveva 18 anni Lorenzo Parelli, vittima dell’ alternanza scuola-lavoro  che ha perso la vita il pomeriggio del 21 gennaio 2022. 

Il ragazzo, residente a Castions di Strada (Udine), frequentava il  quarto anno di studi al Centro di Formazione Professionale presso  l’istituto superiore Bearzi e ieri era il suo ultimo giorno di tirocinio  di alternanza.  

Si trovava all’interno dell’azienda Burimec di Lauzacco e, durante  dei lavori di carpenteria metallica, una putrella di acciaio gli è caduta  addosso, schiacciandolo ed uccidendolo sul colpo. Questo impatto  così violento non gli ha lasciato scampo: è morto sotto gli occhi di  chi gli stava insegnando un mestiere. 

Da cinque anni ormai, in seguito alla riforma renziana della “Buona  scuola”, migliaia di student* dai 16 ai 19 anni di tutte le scuole 

d’Italia svolgono attività lavorative obbligatorie (previste 90 ore nei  licei) non pagate in tutti i settori possibili. 

Questo è uno dei tanti incidenti che si verificano sul posto di lavoro  a causa di una mancata sicurezza. 

È ingiusto morire così giovani, morire quando si sta costruendo  il proprio futuro, morire per il profitto di un privato. È ingiusto  morire a lavoro, morire a scuola, e quando si muore nella  scuola-lavoro la tragedia non è misurabile. 

Il caso di Lorenzo, non è un caso unico. 

Infatti anche Il 16 giugno scorso a Rovato uno studente  sedicenne è precipitato da un cestello elevatore di cinque metri  ed è stato portato in ospedale in condizioni critiche. Il 4  febbraio 2020 alla Emmeti Mondino Trattori di Genola (Cuneo)  un diciassettenne è finito in terapia intensiva dopo essere stato  travolto da una cancellata in ferro.  

La mattina del 13 giugno 2018 un coetaneo si è amputato una  falange lavorando presso un’officina meccanica a Montemurlo,  vicino Prato. 

Il 7 ottobre 2017 a La Spezia si è sfiorata la tragedia quando  uno studente è rimasto schiacciato dal muletto che stava  guidando (senza patente): si è «solo» rotto la tibia.  

Il 21 dicembre 2017 nello stabilimento Sueco di Faenza,  provincia di Ravenna, il braccio meccanico di una gru ha  ceduto: un operaio di 45 anni è morto, un diciottenne si è  fratturato le gambe e ha riportato lesioni.  

Tutte queste persone stavano svolgendo dei programmi di  alternanza scuola-lavoro. Gli “incidenti” si moltiplicano: c’è  una totale assenza di impiego, un eccessivo sfruttamento della  mano d’opera e la totale mancanza di tutela e sicurezza, tutti  abusi che vengono denunciati da anni.

Saman è una libertà che diamo per  scontata 

Saman Abbas era una ragazza di 18 anni ed è scomparsa da fine  aprile. La pista al momento porta alla famiglia che l’avrebbe uccisa  poiché ella si era rifiutata di sottoporsi a un matrimonio combinato.  Era innamorata Saman: non solo di un altro ragazzo ma innanzitutto  di se stessa. Saman era scappata di casa, aveva chiesto aiuto, aveva  avuto il coraggio di alzare la voce per la sua libertà, ed era tornata a  casa solo perché convinta dalla madre (“…torna a casa. Stiamo  morendo”) perché nonostante tutto amava ancora la sua famiglia, ma  da quella casa non è mai tornata. Per l’informazione italiana è stato  facile speculare sulle origini pakistane della ragazza, ma la verità è  un’altra: l’oppressione di Saman non ha religione o nazionalità, ma è  solo l’ennesima dimostrazione di una cultura patriarcale e  discriminatoria che limita la libertà di scelta delle donne. Il  matrimonio combinato, oltre a essere vietato in Pakistan, è una  pratica umiliante ancora in uso purtroppo in tutto il mondo da molti  anni supera le differenze di religione e nazionalità. Non ci deve  interessare che Saman fosse musulmana o Pakistana, come non ci 

deve interessare come erano vestite le vittime di stupro o quanto  avevano bevuto: niente giustifica la violenza, e qualsiasi individuo  ha diritto di sentirsi al sicuro nella propria libertà e nelle proprie  scelte. Ci resta solo da pensare a quante ragazze non hanno avuto il  coraggio che ha avuto Saman e non hanno fatto notizia, subendo in  silenzio.

25 novembre giornata contro la violenza  sulle donne 

Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della  violenza contro le donne. La scelta della data è conseguente  all’episodio di violenza accaduto nella Repubblica Dominicana  proprio il 25 novembre del 1960, che vide protagoniste le sorelle,  nonché attiviste politiche, Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal: le  tre donne, per ordine del dittatore Trujillo, furono bloccate per strada  da agenti del Servizio di informazione militare, i quali le condussero  in un luogo nascosto nelle vicinanze per stuprarle, torturarle e  strangolarle, gettandole poi in un precipizio a bordo della loro auto,  per far sì che sembrasse un’incidente. 

L’orribile ricordo dell’accaduto ha ispirato l’istituzione di una  Giornata internazionale, che riconosce la lotta di tutte e tutti, per fare  in modo che si ponga fine alla violenza che Patria, Minerva, Maria  Teresa e migliaia di donne hanno vissuto e continuano a vivere ogni  giorno sulla propria pelle.

Di che si parla? 

La violenza di genere è quel tipo di violenza commessa sulla base  dell’identità di genere della vittima. Essa, che trova origine  nell’odierna società profondamente maschilista e patriarcale, è  principalmente rivolta alle donne: femminicidio, revenge porn, cat  calling, abusi sessuali e domestici sono fenomeni estremamente  diffusi e in forte aumento nel periodo pandemico. 

Educare alla non-violenza 

Abbiamo detto che la violenza di genere è strettamente legata alla  cultura e alla società: per risolvere il problema va dunque  modificato, o meglio ripensato, il sistema alla base. 

Non si tratta semplicemente di educare i singoli: la cultura del  possesso è una responsabilità comune a tutte le persone, che hanno il  compito di riconoscerla e di distaccarsene. C’è il bisogno che gli  uomini vengano educati al rigetto nei confronti della cosiddetta  “mascolinità tossica”, secondo la quale ogni richiesta deve essere  assecondata, mentre ogni rifiuto rappresenta un’umiliazione, un  intaccamento alla virilità.

Daria Russo, III C