Mon frère bien-aimé

Valerio Anfuso, della I QL del Liceo Scientifico delle Scienze Applicate Quadriennale, del II Istituto di Istruzione Superiore “A. Ruiz” di Augusta, con grande empatia, si è messo nei panni di un migrante che affronta il fatidico viaggio per approdare sulle sponde di una terra che si rivela essere ospitale e salvifica anche se, spesso, i suoi stessi figli non se ne accorgono: “Il cancro di questa società è il non apprezzare ciò che si ha sotto gli occhi”.

Mon frère bien-aimé,

Mi sono seduto a guardare le stelle insieme a te.

Ho sempre creduto che ci fosse qualcosa da temere sulla morte, in realtà mi sembra più difficile sapere che non ti amerà mai nessuno. Mi correggo, c’è qualcosa di più difficile ancora forse, il sapere di non poter mai amare nella maniera in cui  si vorrebbe essere amati, perché se per odiare e provare rancore un motivo c’è sempre, per amare non è così.

L’esperienza mi ha fatto capire che la persona amata ma irraggiungibile è colei che ha mosso le fila del mondo, l’amore bello e impossibile è quello che tollera la perversione di odiare così tanto da innamorarsi, la perversione di voler far soffrire l’altro per avere prova di fiducia verso se stessi.

L’amore è la forma di sofferenza più carnale, primitiva, antica che esista. Il cercare disperatamente ciò che ci manca. Amare significa voler continuamente uccidere l’altro ma non farlo perché significherebbe distruggere noi stessi.

Amare implica il possesso, poiché vuol dire possedere e allo stesso tempo essere posseduti, per questo non è facile. Invadere ed essere invasi, ecco perché io non voglio amare, perché mi recherebbe fastidio, mi brucerebbe le viscere. L’innamorarsi lentamente è qualcosa che mi fa orrore; preferisco l’ossessione che non ti fa dormire la notte congiunta al desiderio fortissimo e violento, questo è l’unico amore che conosco, e ti posso dire che a vivere senza farfalle nello stomaco si sta molto meglio (Almeno io ho deciso di vivere così).

Il giorno in cui ho compiuto il primo passo fuori dal villaggio Io non avevo paura, è certo che non partissi a cuor leggero, ma la grande malinconia non c’era per niente, nessun senso di distacco e nessun rimpianto, almeno voglio provare a ricordarmi così quel giorno.

Tempo a seguire avrei letto un libro di un’autrice spagnola, Carmen Laforet, cominciava appunto raccontando di una ragazza chiamata Andrea che viaggiava da sola per la prima volta ma non aveva paura e invece di provare timore rimaneva affascinata dal continuo e imprevedibile movimento di persone. Per me era stato lo stesso. Il disagio che però mi colpiva intensamente era quello di dover sviluppare un senso di difesa nei confronti dei pericoli che Mamma Africa mi aveva nascosto, dai quali mi aveva protetto. In quel periodo mi ritrovai a fronteggiare alcuni problemi che mi regalarono un’indelebile inquietudine che ha solcato la mia vita da quel momento in poi. Quando il fiume ti assale in piena la reazione più comune è la disperazione, io invece provavo un forte senso di noia. Un mondo che si annoia. Anche se mi facevo del male non me ne rendevo conto. Prendere l’indifferenza come pillola è però un’arma a doppio taglio. É la porta del cerchio dei dannati di cui purtroppo faccio parte.

Una verità è che come si giace bene in un letto tranquilli e spensierati si giace altrettanto bene in una bara o in un sacco della spazzatura. Il viaggio non è la speranza, neppure la meta. Il viaggio è la notte che diventa un continuo preludio di morte dove è indispensabile sapersi guardare le spalle per sopravvivere. Un’altra verità è che il dolore non è mai quantizzato: collassa sul cuore e non ci orbita mai attorno.

Imboccare la via del mare richiede indubbiamente un grande senso di rivalsa sul mondo, che ti punisce per la tua pelle, per la tua etnia, per le tue origini. Il salire sul barchino che ha fatto da spola nel Mediterraneo è qualcosa che non potrò mai elidere dalla mia mente.

Gli Attimi di terrore, il rumore delle onde, i gemiti delle persone, l’essere riuscito a confondermi tra la marmaglia di gente. Mi sono dovuto fare strada da solo passo dopo passo tra un autobus e un treno, dovendo reprimere nel cuore tutte le incertezze.

In effetti le azioni più coraggiose sono quelle che si compiono nella maniera più sconcertatamente ordinaria senza renderci conto di quello che stiamo realizzando.

 

 

Mon frère bien-aimé,

Sono arrivato in Sicilia. Evidentemente sulla faccia della terra esiste un angolino pure per noi. Non tutte le situazioni sono facili, ma in fondo che cosa c’è di più bello della difficoltà, dell’essere con le pezze al culo ma con il cuore intatto. Tutto ha un tocco di magia in ciascun contesto, basta crederci. Mi ci devo abituare al mare che sconfina con il cielo quasi immobile. Mi porto con me tanti volti, tante persone che ho conosciuto anche per un secondo, gli svariati mezzi pubblici nei quali ho sostato. La solitudine mi ha regalato la fantasia necessaria per immaginare gli altri anche quando in realtà non c’era nessuno.

La Sicilia è uno stato d’animo, una terra che ti accoglie come una madre. Sulla costa orientale c’è una piccola città che si chiama Augusta, tra Catania e Siracusa. I posti ti parlano più delle persone, ti toccano nell’anima. Anche quando ho avuto modo di immaginarmi da una nuova prospettiva, ho pensato che anche quando tutto sembra cambiare in fin dei conti tutto resta uguale, Augusta significa vivere al confine: guardare l’Africa negli occhi e trovarsi l’Etna alle spalle, guardare le correnti dell’Africa Bianca erodere la pietra lavica. Nonostante spesso avessi pensato che fossimo pezzi di carne che ospitavano un’anima destinata a collassare nel profondo, io ho incontrato una rete che in qualche modo ha rallentato il mio precipitare. Ho scoperto che dall’altra parte del Mediterraneo una città diveniva primo porto di sbarco e quindi prima ancora di salvezza, rompendo le lunghe e pesanti catene dell’indifferenza che strappano tante vite buttandole giù nel mare destinate a venire risucchiate dagli abissi dello stesso mare che doveva essere via di salvezza. Una nuova famiglia pronta ad accogliermi si trovava qui dall’altra parte del Mondo, quasi mi stesse aspettando da sempre. Tutti abbiamo un posto dove poter approdare, l’unica cosa che ci tocca fare è raggiungerlo. Qui in Sicilia ho intrapreso un cammino nuovo, tra le bellezze che gli altri non avevano notato, tra i sacchi di spazzatura gettati sulla costa, ho visto la bellezza (quella che ti mozza il fiato) col sapore e l’amaro odore di petrolchimico.

Dove tutti gli altri avevano visto macerie, Io avevo notato il Faro Santa Croce che con la sua luce intermittente mi dava l’idea di un battito perpetuo, di qualcosa che si prolunga indefinitamente nel tempo e vada a sconfinare con l’eternità. Sono poche le cose che rimangono fisse, restando punti di riferimento, che scandiscono la mia esistenza, come il faro. Purtroppo qui la gente si accorge solamente di ciò che nel corso degli anni ha rovinato questa terra vedendola come una femmina stuprata, ad un passo dalla morte. C’è qualcuno però come me che ha conosciuto il dramma e per questo sa cogliere la bellezza che agli altri ormai è invisibile. Il cancro di questa società è il non apprezzare ciò che si ha sotto gli occhi.

Ho sentito il peso sulle spalle di dover tornare alle origini, alle tradizioni. Il richiamo di certi odori, suoni che puntano dritti al cuore. Mi sono innamorato della vita che si muove incessantemente.

Qui ho imparato a pensare alla natura come Casa ospitale, chiudendomi dentro l’immensa Pantalica mi sono tuffato nelle acque del fiume non più con la paura di annegare, ho imparato a vivere l’isola facendo parte integrante di me il senso di stare a metà tra Europa e Africa.

Ma la cosa più importante di tutte è stata identificarmi per la prima volta come un valore aggiunto e quindi una risorsa, proprio perché questa isola ti offre tanto, io sono restato e ho preferito questo al raggiungere i miei parenti in Svezia.

Adesso mi sono seduto a guardare le stelle insieme a te solo che adesso una di queste stelle sei tu.

Questo è uno dei motivi per cui ho deciso di fare l’operatore umanitario, per poter scrutare l’orizzonte nella speranza di poter essere l’ancora di salvezza per qualcuno, ribadendo il concetto di essere lì per chiunque ne avesse bisogno, se qualcuno dovesse attraccare anche per sbaglio. Io resto ancora qui ad aspettarti.

Se ci hanno raccontato questa terra come sbagliata e patria di innumerevoli disgrazie, c’è un errore madornale perché nonostante tutto se da Augusta passa la grande marcia dell’umanità c’è ancora un motivo per cui questa città meriti di essere amata e difesa.

 

Addio,

 

Valerio Anfuso 1QL