Intervista a Bianca Campli
In questo terzo giorno del Festival della Scienza ad/ventura, il Polo Liceale Mattioli ha avuto l’onore di ospitare la storica dell’arte e presidente dell’UNESCO Bianca Campli nel convegno ‘La vita delle cose’, a mostrarci il significato più profondo dell’arte: l’oggetto non è solo oggetto, ma traccia della nostra esistenza.
Prima di tutto, un po’ di presentazioni: chi è lei e che ruolo svolge?
Sono Bianca Campli e oggi sono qui come presidentessa del club UNESCO di Vasto, associazione no-profit -ed emanazione dell’Onu- creata per perseguire obiettivi di pace attraverso la cultura: in particolare, ci occupiamo della difesa del patrimonio artistico attraverso il riconoscimento e la tutela dei siti più importanti.
Ho fatto l’insegnante di storia dell’arte per quarant’anni presso l’Istituto d’Arte di Vasto e, in contemporanea, ho lavorato per quindici anni all’Accademia dell’Immagine dell’Aquila che forma per il cinema.
La passione per l’arte è qualcosa che ha portato avanti fin da piccola o l’ha sviluppata già in età adulta?
Mi sono laureata in lettere. Quando ero ragazza non c’erano molte possibilità, particolarmente a casa mia. La storia dell’arte mi piaceva, ma trasformarla in una “passione romantica” sarebbe stato decisamente “retorico”. Però poi, man mano, ho scoperto quanto fosse interessante leggere il mondo attraverso l’arte. Mi sono specializzata in storia dell’arte a Urbino, ho fatto il concorso e ho cominciato a insegnare.
Nella conferenza parlavamo di oggetti e cose che possono ricordare persone care o anche tragedie. Abbiamo citato la Shoah, la bomba nucleare, i terremoti… quindi lei quale importanza dà alle immagini, alle foto, in relazione ai ricordi?
Una foto cos’è se non un pezzo di carta impressionato e, dunque, un oggetto? Però si sa, trasformare in un qualcosa che invece ha valori affettivi, storici, simbolici, memoriali, può raccontare tantissime cose. Pensiamo a quando si va nei siti archeologici: se non si dà loro significato, quelle ‘pietre’ restano pietre, ma all’improvviso ti si apre un mondo di tecniche, curiosità, storie, cominci a far caso allo stile, al materiale, ad indagare sulle origini di tutto ciò che vedi. Capisci quanto un oggetto possa aprire e dilatare una conoscenza che lo trasfigura. In qualche modo, avviene una sorta di “transustanziazione“.
In Italia abbiamo una tendenza a ‘monumentalizzare’ tutto, anche a rallentare il progresso perché ancorati alla tradizione. Ritiene che in quanto italiani siamo in una posizione privilegiata nel percorso di comprensione dell’importanza degli oggetti?
Io credo che non sia deterministicamente definibile questa cosa, sarebbe come dire che un artista è una brava persona solo perché fa l’arte. E invece, abbiamo avuto artisti che erano veri e propri delinquenti, per esempio i nazisti amavano la musica e leggevano Goethe. Indubbiamente la conoscenza ti dà delle opportunità, anche quella di salvarti personalmente. La vita, prima o poi, ti fa attraversare momenti bui, momenti “di carestia” come li chiamo io, e se hai riempito i granai con libri, conoscenza e riflessioni, tu puoi rimanere sull’isola come Robinson Crusoe e avere dove attingere. Nei momenti più bui della mia vita io ho attinto proprio a quei granai nei quali avevo messo i miei studi, i miei viaggi, le relazioni. In questo senso penso che noi abbiamo dove guardare, siamo un paese ricchissimo, ma se non facciamo quel lavoro di conoscenza e continuiamo a ignorare ciò che ci circonda, è come se vivessimo nel deserto.
Al giorno d’oggi noi giovani ci sentiamo continuamente dire di ‘levare il telefono’ e non pensare a fare foto ma a viverci il momento. In relazione al suo modo di vedere gli oggetti e -più nello specifico- le foto, cosa crede sia più importante?
A me non piace tronciare le questioni in maniera netta. Ti racconto un aneddoto: a scuola facevo le rassegne cinematografiche con i ragazzi e avevamo da poco ottenuto la legge che vietava di interrompere i film con la pubblicità. Ritenevamo limitante che, nel momento più bello, con Robert Redford che stava per baciare Meryl Streep, piazzassero una pubblicità. Quando poi feci vedere i film ai ragazzi, loro lamentarono la totale mancanza di pubblicità: questo per dire che ciò che per me era un valore, per loro era un disvalore, perché vivevano in un altro tempo, con un’altra mentalità.
Per formazione personale amo la continuità delle cose e faccio pochissime foto. Oramai su internet trovi tutto, e allora fotografo solo qualche dettaglio che mi ha colpito -ad esempio, la frase scritta sulle pagine dei libri nella parete della vostra biblioteca- e che so che la utilizzerò per qualcosa. Questo voler fissare tutto è insensato, magari poi ti dimentichi pure di aver scattato la foto e non avrai vissuto a pieno il momento. Bisognerebbe saper distinguere quando ne vale la pena.
Ringraziamo la professoressa per aver partecipato al Festival della Scienza Ad/ventura e dedicato il suo tempo al Mattioli Chronicles.
Sharon Rubbi e Arianna Roberti