• Home
  • Blog
  • Articoli
  • “Uomini e Topi” di Steinbeck: un libro che -forse- è allegoria della vita 

“Uomini e Topi” di Steinbeck: un libro che -forse- è allegoria della vita 

L’opera celeberrima di Steinbeck ‘Uomini e topi’ rappresenta una pietra miliare nella letteratura mondiale del ventesimo secolo: dietro quella che può apparire una storiella di semplice e inevitabile umanità, l’autore sembra riuscire a nascondere il significato profondissimo della vita. Con il suo ritmo lento e cadenzato, a tratti straziante, il racconto procede crudo ma maestoso e tiene il lettore costantemente sull’attenti, come se tra le parole si nascondesse una bomba pronta ad esplodere; ma che poi, anche se esplodesse, non ci stupirebbe. 

Uomini è topi è pienamente figlia del suo tempo -gli anni ‘500 e la Grande Depressione– e perciò è esaltazione silenziosa della normalità: George e Lennie, due braccianti dal passato tanto comune quanto ambiguo ed eccezionale, vagano insieme alla ricerca di lavoro. Ciò che succede poi, l’approdo nel ranch, gli incontri, gli scontri, i sogni e persino quello che può sembrare un brutalissimo finale, non ha nulla di più straordinario della premessa. 

Proprio per questo motivo Luigi Sampietro, curatore dell’ultima edizione italiana, nel commento introduttivo definisce Steinbeck un ‘naturalista mitico’: naturalista, perché nel racconto di Uomini e topi ogni personaggio si fa portavoce di una categoria specifica e reale della società, rappresentando tutte le sfaccettature dell’essere umano ognuna con i propri aspetti positivi e negativi (George è piccolo e scaltro, Lennie grosso e sciocco, Curley arrogante e rissoso, sua moglie irriverente e sola); mitico, perché dà a questa realtà un senso di eccezionalità, di misticismo sì anti-eroico, ma straordinario. Lo stesso Sampietro descrive perciò l’opera come ‘allegoria della condizione umana’, di uomini che vivono le loro vite tutte uguali, se non nella forma, almeno nel valore, sulle orme di un destino che è già scritto e per questo non meno affascinante. 

Ma è giusto l’appellativo scelto da Sampietro? O meglio, cos’ha questa storia da risultare così profonda, così rappresentativa rispetto al senso della vita? 

Steinbeck non si fa portavoce solo di una classe sociale più virtuosa delle altre, come si potrebbe pensare: l’umiltà dei protagonisti che sceglie deriva dalla volontà di ritrarre il binomio uomo-lavoro nella sua connotazione più primordiale ‘Lavoro uguale vita’, in una visione quasi necessaria e doverosa della fatica. I sogni sono irrealizzati, opposti alla realtà, soprattutto quella di un’epoca che richiedeva ai suoi abitanti pragmatismo, impegno, testa sulle spalle per risollevarsi economicamente e socialmente.

Allo stesso modo il ranch, luogo principale del racconto, non è simbolo di una povertà che vuole essere celebrata -ospita, infatti, anche dei ricchi- ma del lavoro più puro e intenso; e il fatto che l’occupazione di ogni personaggio sia diversa è proiezione delle molteplici sfaccettature del collettivo. Paradossalmente anche la moglie di Curley, che passa le sue giornate a provocare gli operai, ha una specie di lavoro, perché è la sua attività quotidiana.  

Sul realismo della storia, poi, influisce anche la scelta, non scontata, di rappresentare un’amicizia in maniera così autentica: quello che unisce George e Lennie è tutt’altro che il rapporto banale e romanticizzato che troviamo spesso nella letteratura, ma è una fratellanza difficile, costantemente sull’orlo della crisi, fondata sul rispetto reciproco e su una collaborazione tanto forzata quanto inderogabile. E anche, se ci pensiamo, su una sorta di pietà che costituisce insieme la più grande dimostrazione di eroismo e antieroismo: Lennie accetta di occuparsi di un ‘povero scemo’ che non sa controllare la sua forza, assumendo il ruolo di capo ma limitando la propria libertà.

È rappresentata, dunque, la condizione umanissima dell’uomo che deve sempre scegliere come gestire gli affetti in relazione al resto della vita, dal momento che questi possono essere i nostri ostacoli principali. Il compromesso a cui si giunge è fragilissimo ed è il punto centrale della vita, ossia il nostro essere inequivocabilmente destinati a relazionarci con qualcuno: non siamo superuomini, possiamo andare ognuno per la propria strada ma, se questa non si incrocia con i percorsi degli altri, non ci saremo mossi di un passo. E così George è ‘rallentato’ dall’amico nel raggiungimento dei suoi obiettivi, ma solo grazie a lui ha un punto riferimento ed è, dunque, meno perso. 

Così Steinbeck racchiude la nostra esistenza in un guscio di necessità meccanica e razionale, in una narrazione che procede spietata senza dramma, senza lacrime. Dopo secoli di letteratura eroicistica, diventa profetico il lavoro di un romanzo che annienta tutte le aspirazioni e ci riduce a null’altro che animali un po’ presuntuosi, tutti ugualmente ‘maglie’ di una grande rete che è il mondo. Con la consapevolezza che siamo solo uomini, ma per noi le cose vanno come per i topi

Arianna Roberti