Razza? Umana!

Quando sono stata rinchiusa in 10 mq di stanza e in 20 mq di corridoio, senza poter uscire, senza poter vedere la luce del sole, con le finestre poco aperte da dove di rado passavano degli spiragli di vento, l’unica cosa a cui pensavo era di fare squadra con più persone possibili, per affrontare la malattia, senza distinzione di nazionalità, uso questo termine e non quello di razza in quanto il mio pensiero ne concepisce una sola unica ed esistente, quella umana, anche se spesso l’uomo tende a dimenticare l’essenziale e doveroso rispetto che va portato ad ogni suo simile trasformandosi nella peggiore delle bestie, rivelando l’odio e la violenza che lo caratterizzano. Ogni uomo conosce l’infelicità, ogni uomo possiede forza e coraggio, due bastoni che se non si imparano ad usare ti si ritorcono contro. In ospedale ho percepito quanto fosse aspra la sensazione di solitudine: essa è come un giardino dove l’anima diventa secca e i fiori che vi crescono non hanno profumo. In ospedale ho conosciuto molte persone, che mi hanno fatto sentire il sapore meraviglioso dell’ amore. Per ricevere ho imparato a dare e per dare ho imparato ad essere me stessa. Mi sono affidata all’istinto e sono stata fedele alla mia coscienza e alle mie emozioni. Ho accettato di essere responsabile delle mie azioni e delle persone che ormai amo. Ho fatto in modo che la malattia non inasprisse o disilludesse gli istanti magici che stavo vivendo con quelle persone con cui stavo finalmente costruendo una famiglia. Mi hanno saputo stupire,  perché questa dovrebbe essere la vita e cioè un continuo stupore. Ho trasformato il randagismo di un fallimento in una conquista. Intorno a me c’erano tante persone diverse. Molti nella diversità trovano un problema, io in essa ho trovato una speranza, il mondo è bello perché ognuno è diverso dall’altro non solo fisicamente ma anche nel modo di pensare… questo è ciò che ci rende unici e ci contraddistingue dagli altri individui. Tutti siamo legati da un filo comune, la mancanza d’amore. Siamo tutti su uno stesso vascello, passeggeri dispersi nell’oblio della vita, chi in fuga da un sogno che li aveva traditi , alla ricerca di una nuova promessa, persone ferite, confuse, persone innamorate ma sole, senza una metà al proprio fianco, ma anche persone felici. È la complicità a rendere viva la nostra umanità, come una deriva in mezzo al mare degli alibi e delle nostre nostalgie  che costeggiano incessantemente le nostre vite. Noi uomini siamo più simili  di quanto crediamo, ci uniscono molte cose: la nostra natura subdola e folle allo stesso tempo, il leggere libri per superare l’abbandono, l’andare in analisi, il mascherarsi dietro alle emozioni. Dovremmo imparare che ciò che ci accomuna è molto di più di ciò che ci divide. Da soli si fa poco, insieme si fa molto. Non sono razzista. Ho avuto un’ampia famiglia di 30 persone a sostenermi, che ricordo perché mi è impossibile dimenticare. È stata l’ unione con gli altri a salvarmi, perché nulla ha impedito a quelle persone di regalarmi un sorriso, una lacrima o una speranza. Concludo con un messaggio dedicato a voi, ragazzi, fate della vostra debolezza una poesia per la vita, questo sarà un vostro dono, non dimenticate mai di amarvi e di amare chi vi ama e non dimenticate mai che nella vita non si è mai troppo maturi o vecchi per imparare cose nuove, amate senza distinzione di sesso, nazionalità o cultura le persone che avete attorno e troverete equilibrio in voi stessi.

di Elena Foresti