Settimo senso – Racconto

«Tutti in fila, sì, così, per bene».
Una decina di bambini erano disposti lungo il corridoio, chiacchieravano tra loro e ogni tanto si ricordavano dell’ordine di stendere il braccio di fronte a loro. Un uomo e una donna in tunica scura faticavano un po’ per tenerli buoni, ma alla fine riuscivano sempre a svolgere il proprio lavoro
L’uno avvolgeva attorno al piccolo polso una striscia rossastra e l’altra lo stringeva per bene attivando dei tasti microscopici dietro.
A quel punto il bambino veniva rispedito fuori, a casa e, via via che i braccialetti venivano indossati, nella sala c’era sempre più silenzio, fino a che non ci fu più nessuno e i due inservienti tornarono al loro banco all’ingresso ad aspettare il gruppo successivo.
Accadeva sempre così, in continuazione, bambini e bambini che entravano lì con quella loro terrificante energia e uscivano finalmente sistemati, riuscendo a dominare quelle futili emozioni.
Quel braccialetto, denominato settimo senso, era stato una delle migliori invenzioni tecnologiche degli ultimi tempi e il governo aveva deciso che, per il loro bene, tutti avrebbero obbligatoriamente dovuto indossarlo, sia adulti che bambini.
Permetteva di controllare le loro emozioni, di dominarle, di farle sparire.
In questo modo non c’erano più persone troppo deboli e insicure, così erano tutti felici, o almeno, così credeva il governo.
In effetti, in questo modo, gli scontri erano praticamente spariti, anche se tutti sembravano tanti piccoli o grandi automi.
Emma aveva sedici anni, compiuti da qualche giorno, e proseguiva normalmente la sua vita da adolescente, costellata dalla scuola e dai compiti.
Non aveva amici – nessuno ne aveva, d’altra parte – e nemmeno un amore segreto, ma lei in realtà non sapeva neanche cosa fossero.
Sapeva che a trent’anni, se avesse voluto, avrebbe potuto aiutare a mandare avanti la generazione umana, oppure continuare il lavoro che aveva scelto.
Poi ad un certo momento della vita sarebbe morta e stop. Il suo giro nella vita sarebbe terminato e forse ne sarebbe iniziato un altro, nessuno lo sapeva.
Era un giorno come gli altri quando accadde.
Si trovava in palestra a fare ginnastica e correva insieme ai suoi compagni, in silenzio, mentre il professore dava ordini con il fischietto, quando la ragazza perse l’equilibrio e cadde.
Non seppe mai come successe veramente, ma il suo braccio destro andò a sbattere contro il contenitore dei palloni.
Il professore andò subito da lei, controllò il funzionamento del braccialetto e che non si fosse fatta male.
Sembrava tutto a posto, ma non era così.
Se ne accorse la sera quando, andando a dormire, si ritrovò a fissare il cielo.
L’aveva guardato migliaia di volte prima di allora, ma le sembrava di vederlo solo ora per davvero.
Il blu della notte si sposava perfettamente con il colore brillante delle piccole stelle. Proprio al centro c’era la Luna, così lucente tanto da sembrare un diamante.
Perché nessuno le aveva mai detto che il cielo notturno potesse essere così bello?
Uscì nella terrazza, gli occhi fissi verso la volta celeste e di colpo sentì un odore familiare.
Biscotti appena sfornati.
Non sapeva il motivo, ma tutto ciò la faceva sentire bene, a casa.
Emma scosse di colpo la testa, come se si fosse appena risvegliata da un sogno.
Che stava facendo? Perché aveva quegli strani pensieri?
Non aveva una risposta.
Per i giorni successivi le sembrava di vedere tutto per la prima volta, di toccare, di annusare per la prima volta, come se fino ad allora fosse vissuta in una bolla.
Non riusciva a capire perché gli altri non vedessero le infinite possibilità intorno a loro.
Come si poteva concentrarsi unicamente nelle abitudini scolastiche con tutto questo intorno?
Iniziò a passare tanto tempo nel parco della scuola, assaporava ogni odore, ogni colore, le sembrava di non aver mai imparato tanto quanto allora ed era… felice.
Sì, solo così poteva definire quella morsa alla pancia – le sembravano spilli, ma non facevano male – e la voglia di saltare per tutta la scuola.
Solo così poteva definire la voglia di vedere il suo sorriso, stavolta vero, allo specchio, di osservare i suoi occhi brillare.
Era felice, la persona più felice della terra, e nessuno lo sapeva.
Però non poteva durare per sempre…
Erano le sette di sera quando ricevette la notizia.
«Tua nonna è morta, domani c’è il funerale. Trova i vestiti da lutto» le disse inflessibile suo padre.
A Emma per un attimo mancò il respiro.
Con la massima calma si spostò in camera sua e solo lì, sotto le coperte, le lacrime iniziarono a scenderle silenziose sul volto.
Cos’era questo? Cos’era quell’acqua salata che le usciva dagli occhi?
Aveva letto da qualche parte che prima le persone quand’erano tristi emettevano lacrime e ciò era un male, ma perché allora si sentiva molto meglio in quel momento, che prima quando non poteva che tenersi tutto dentro?
Il giorno dopo, vestita tutta di nero, si recò al funerale, fatto per tradizione ad ogni morte come augurio di buona vita nell’aldilà, a cui partecipavano solo i parenti più stretti.
Si era un po’ ripresa e si era comandata più volte di non piangere né altro, sennò avrebbe attirato l’attenzione.
Vide il corpo freddo di sua nonna quando fu messo nella bara e una sequenza di immagini, come una scarica elettrica, le attraversò la mente.
Si ricordò di quando era piccola e sua nonna la faceva passeggiare per il giardino, quando facevano i biscotti al cioccolato ed Emma si riempiva tutta di farina pur di far sorridere almeno un po’ quella donna che lei amava con tutto il cuore.
Si ricordò di tutto ciò, di quando ancora non aveva il braccialetto, di quei sentimenti così forti, così veri e del fatto che ora quella persona a cui aveva… aveva…. aveva voluto bene – che strana parola – non c’era più.
Non c’era più e non ci sarebbe più stata, che cosa assurda, che cosa veramente assurda…
La domenica non sarebbe più andata a casa sua e non avrebbe più potuto riprodurre i ricordi che ora aveva di quando era piccola.
E ciò non era giusto.
Non si accorse nemmeno di star piangendo, prima piano, poi a dirotto, le mani che le coprivano il volto, cercando di fermare i singhiozzi, eppure in tutto il casino che sentiva dentro e che mostrava fuori, c’era una sorta di calma in un punto imprecisato della sua mente che la faceva sentire al sicuro.
Sentì appena la gente che parlava intorno a lei, chi la indicava, chi mormorava, mentre Emma si rendeva conto che, per quanto sentisse un dolore forte al petto ora, un dolore lancinante, era bello, era bellissimo provare quelle emozioni, piangere, ridere, emozionarsi, vivere, vivere in tutte le sue forme, così che il giro nella vita che stava facendo potesse davvero valere la pena.
E non importava se a volte si soffriva, l’importante era provare qualcosa, sempre, nel bene e nel male.
Qualcuno la afferrò per le braccia e la condusse in una stanza a parte, Emma non capiva. Cosa stava succedendo?
Poi una delle guardie le afferrò il polso, alzandolo verso l’alto ed Emma comprese.
Un secondo dopo l’uomo pigiò il pulsante di riavvio del braccialetto.

Emma aveva sedici anni compiuti ormai da qualche mese. Trascorreva normalmente la sua vita da adolescente tra la scuola e i compiti.
Un mese prima era morta sua nonna, ma la ragazza non conservava alcun ricordo dell’accaduto.
Non sapeva perché, ma, in ogni caso, non le cambiava molto.
La sua vita sarebbe andata comunque avanti, come tutti.
Sara La Torre / Liceo Classico Galileo di Firenze