La fine di Gaia

“Blair, Comando di sicurezza 3, Ala ovest.” Un uomo alto e sulla trentina si presentò unendosi al fianco del generale Oppenheimer e del manipolo di scienziati al suo seguito nella camminata veloce lungo il settimo corridoio dell’Ala di contenimento est. Tutti i loro volti erano corrugati, alcuni contorti nei pensieri e nelle perplessità, altri in preda al terrore puro. Oppenheimer sembrava quello più colpito dall’intera situazione, però: il suo sguardo era vuoto, perso nel bianco dei pannelli del pavimento. Non parlava dall’inizio dell’allerta, lasciando urlare i fastidiosi bip del suo interfono al suo posto. Si trattava del soggetto zero.

“Soggetto zero?” chiese Blair ad uno degli scienziati, quello basso, con gli occhiali spessi e la fronte madida di sudore. Le guardie hanno il divieto categorico di comunicare con ali diverse dalla propria, a meno che non ci sia in corso un’emergenza.

La voce dello scienziato, fragile e acuta, tremava notevolmente. Aveva paura. “Non ha un nome. Gliene abbiamo dato uno noi, per non trattarla del tutto come un animale. Gaia, l’abbiamo chiamata.” I piedi dell’uomo, coperti da stivali inzuppati d’acqua sporca, avanzavano in piccolissimi passi ordinati, in una dinamicità precisa, costante, meccanica.

“Oswald” la voce cupa del generale interruppe la conversazione “dagli il fascicolo.”

Lo scienziato, Oswald, tirò fuori un dossier di una decina di pagine da sotto il camice ed allungò il braccio verso Blair, che non esitò a prenderlo e sfogliarlo. Il “soggetto zero”, Gaia, nella foto appariva come una ragazza giovane ed in salute. A vederla, Blair non avrebbe mai pensato di avere a che fare con una persona in Ala di contenimento est.

Presero l’ultimo dei corridoi trasversali, quello che dava verso l’esterno. Avrebbero preso un ascensore di lì a poco. Blair si fermò a guardare fuori dal finestrone. L’ultimo piano dell’edificio del Terzo comando di sicurezza si ergeva sopra una collinetta di modesta altezza che dava su una vasta pianura, che si estendeva fin oltre il visibile. Era un panorama aberrante: l’aria giallastra e pregna di polveri, scagliate via dal campo visivo da un forte vento, tingeva del suo colore stagnante e nauseante l’intero paesaggio, facendolo somigliare più ad una vecchia fotografia desaturata che a qualcosa di effettivamente vivo e reale. La nebbia copriva gran parte dell’orizzonte, disperdendo le poche aride figure in un nulla, omogeneo e spaventosamente fermo, lo sfondo di una triste e surreale scenografia apocalittica realizzata per uno spettacolo senza marionette.

Blair era fortunato ad osservare quell’orrendo spettacolo ogni giorno: nessuno vedeva la superficie da generazioni. Del resto, perché avrebbero dovuto? Il vero mondo era sottoterra, ormai. Le luci, i palazzi, le persone erano un centinaio di metri sotto il livello del mare. L’unica cosa che potevi fare, una volta fuori, era morire. Non esisteva niente all’infuori delle pareti della prigione di contenimento, se non un’aria irrespirabile, colma di tossine e di polveri letali. La terra, che a dire delle generazioni prima doveva essere verde come i prati sintetici della città, faceva contrasto con il cielo con il suo grigio antracite.

Ad onor del vero, le uniche persone che si facevano “uscire” erano i condannati a morte, scagliati fuori dalla prigione dalla sala centrale. Li incastonavano in delle sfere di plastica trasparenti e li lanciavano fuori con un sistema a cannone. Una volta fuori, si era liberi, ma solo per quei pochi minuti che bastavano affinché mancasse l’aria dentro la sfera e il prigioniero rompesse quest’ultima in cerca di ossigeno per poi essere travolto da un’onda di gas mortali.

Dal fondo del corridoio echeggiò un aprirsi di porte e un richiamo di Oppenheimer. Si saliva verso l’ultimo piano. L’ascensore era un cubo di spesso vetro incastonato nel cemento dell’Ala est. Da lì si vedeva lo stesso panorama di prima, ma da un’altra prospettiva. Non c’era nessun finestrone a delimitare la vista, e se ci si focalizzava solo sul paesaggio sembrava di levitare nel nulla, senza pareti a filtrare l’immagine. Ci si sentiva molto più soli e molto più piccoli, delle piccole formiche in un mondo di giganti dormienti da secoli.

La porta alla sinistra di Blair lo interruppe da quella visione e lo riportò nei corridoi bianchissimi ai quali era ormai abituato. Un numero interminabile di secondi e di passi lo portarono, insieme allo squadrone di scienziati, ad una portellone scuro, in ferro pesante, bloccato da un codice da inserire da un tastierino sporco situato poco sopra il grosso maniglione di entrata. Il generale non fece in tempo ad ordinare a qualcuno di aprire che già uno scienziato, il più alto di tutti, aveva già aperto la camera. La porta stridette violentemente contro il pavimento e si aprì, rivelando una sala in penombra. Tutto era, come sempre, estremamente calmo, illuminato flebilmente dal carnevale di lucine verdi che veniva dagli apparecchi elettronici sul muro destro e dalla luce al neon fluorescente della stanza di fianco, comunicante tramite uno strato di vetro spesso una spanna. Era la sala di controllo del soggetto zero. Gaia.

Oppenheimer fece cenno con la mano al team di scienziati di andare. Oswald e quello alto entrarono nella sala e prelevarono un dischetto da uno degli apparecchi sulla destra e si defilarono con il resto della squadra con passo veloce. La ragazza dall’altra parte del vetro, nella stanza comunicante, non somigliava per niente alla bella giovane della foto. L’avevano privata di tutto, inclusi i vestiti, e l’avevano connessa ad una macchina di dimensioni imponenti che la avvolgeva quasi completamente. Ogni parte del suo corpo era allacciata ad un grosso cavo che si perdeva all’interno della macchina: ne partivano centinaia, come capelli, dalla testa, e le braccia e le gambe erano martoriate da trecce che penetravano nella carne. Quello che rimaneva scoperto era un corpo al contempo gracile e meraviglioso, senza forze, abbandonato alla mercé di qualsiasi cosa fosse quello strumento di tortura.

“Gaia.” La voce composta e marziale di Oppenheimer rimbombò nella sala. Gaia aprì gli occhi e alzò lo sguardo verso il generale e Blair, senza aprire bocca. “Ti volevo presentare il capo del Comando di sicurezza 3-ovest Arthur Blair. Sarà la tua nuova guardia per la prossima settimana.”

La ragazza volse gli occhi verso Blair nel momento stesso in cui lui volgeva il suo, attonito e sorpreso, verso il vecchio generale. Oppenheimer si avvicinò all’orecchio della guardia. “Nel caso la situazione dovesse peggiorare ed é necessario un suo intervento, può pure ricorrere alla violenza. Dobbiamo tenerla a bada, a qualsiasi costo.”

Blair si girò di scatto, sempre più perplesso. La violenza sui prigionieri era stata la causa delle “uscite” delle vecchie guardie. E lui non voleva che lo facessero uscire.

“Meglio morta che libera.” Oppenheimer rafforzò il concetto, con un sussurro rauco e deciso, prima di congedarsi velocemente e lasciare la guardia sola, con Gaia nell’altra stanza, e la porta di fianco al vetro aperta. Blair rimase stupito alle parole forti del generale: nessuno ricorreva ai colpi di pistola se non in casi estremi. Cosa aveva potuto mai fare una ragazza così innocente?

“Bel panorama, fuori.” La debole voce della ragazza finalmente si alzò, sepolta quasi del tutto dal ronzio e i respiri delle macchine intorno.

“…Sì. Bello.” La voce della guardia titubò alla frase apparentemente insensata. Tutti sapevano che il mondo fuori era quanto di più orrendo immaginabile. Nessuno, neanche per scherzare, l’avrebbe definito bello.

“Sai, una volta non era così. Si poteva anche respirare.”

“E tu come lo sai?” Blair le rispose puntandole gli occhi addosso. Sapeva di non poter parlare con il soggetto direttamente, ma desiderava sapere di più. Voleva conoscere il motivo per il quale quella ragazza, apparentemente senza colpe, si trovava lì appesa ad un bestione meccanico di tale portata.

“Io c’ero. Eccome, se c’ero.” Impossibile. Erano passati più di duecento anni dall’ultima guerra. Nessuno sopravvive così a lungo. La guardia pensò che probabilmente si trattava di un’altra dei reietti, pazzi, schizofrenici e pericolosi, che venivano mandati via dai centri abitati e dentro le camere di controllo per il bene della sicurezza della città. Blair continuò a fissarla, come per spronarla a continuare. Per vedere dove andava a finire il discorso. Era curioso, come un bambino di fronte alla fiaba della madre.

“Era tutto verde qui, una volta. C’erano centinaia di specie diverse di animali che scorrazzavano qui e là. E il sole filtrava tra le foglie degli alberi, e tutto intorno c’era profumo di fiori.” Gaia enumerò un numero spropositato di dettagli di un’immagine idilliaca, che solo i più acculturati potevano riconoscere nei testi raccolti nelle polverose biblioteche, nel sottoterra. “Lo sapevi?”

Blair stette zitto. Ebbe un brivido lungo la schiena, come se qualcosa stesse andando terribilmente storto. Come se gli si stesse togliendo qualcosa dalle mani, davanti i suoi stessi occhi.

“Sai, un tempo vi proteggevo pure. E voi mi adoravate, oh! se mi adoravate.” Gaia non aveva distolto gli occhi dal pavimento: un singolo movimento e la macchina avrebbe generato qualche scintilla per non permetterle di flettere un muscolo. “Ogni fulmine era un segno divino, ogni piccola stranezza che non corrispondeva agli schemi era novità. Vivevamo bene insieme.”

Il discorso si faceva sempre più surreale ad ogni frase aggiunta. Blair stava in silenzio, ad ascoltare quello che considerava un prolisso delirio, ed intanto pensava. Si chiedeva perché la ragazza sapesse di tempi arcani, di chi la adorava e di quali schemi si riferisse. Era come se la giovane stesse parlando ad un pubblico universale, non solo a lui. Si sentì addirittura tagliato fuori dal monologo, in qualche modo.

“Poi avete iniziato ad esagerare. E a farmi del male.” Che la ragazza stesse parlando per mano di qualcos’altro? Non era la prima volta che qualche falso posseduto entrava nelle carceri. Di solito il metodo migliore era chiedere chi controllasse il corpo, per sdrammatizzare l’atmosfera.

“Chi saresti tu, scusami?” Blair interruppe lo sproloquio di Gaia in maniera alquanto indelicata, con un tono impositorio e grave, nel vano tentativo di far ritornare tutto ad un minimo di realtà.

“La Natura, in persona, Arthur.” Gaia sollevò la testa sprigionando tre, quattro scintille dalla treccia di cavi che le teneva chino il capo. “Guarda quanto sono bella, adesso.”

La Natura. Buona, questa. Di solito si trattava di vecchie figure religiose, quelle in cui credevano i popoli di duecento anni prima: chi si spacciava per un discepolo del male, chi giustificava la sua presenza sulla Terra con il sacrificio divino, chi aveva deciso per sé stesso che il suo compito era quello di riportare la fede tra gli uomini. Nessuno aveva mai messo in campo la Natura in questo perverso gioco di ruolo tra malati di mente.

Eppure la guardia vide qualcosa di diverso: la ragazza sembrava completamente convinta della sua identità. I malati, di solito, tendevano ad accennare qualche insicurezza nel definirsi chissà chi. Qui, nulla. Magari era veramente la Natura?

“Sai,” Gaia riprese, noncurante del visibile dubbio causato dal flusso di coscienza di Blair “avrei tollerato anche i grattacieli. I palazzi e l’edificazione imponente. Ma quando é troppo, é troppo. Sono umana anche io… in qualche modo. É questo l’essere umani? Avere dei limiti?”

Ci fu una breve risata, poi la ragazza continuò. “Nel senso che ho dei limiti anche io. Limiti che voi, come genere umano, avete superato di netto. Facendomi del male fisico, e aggiungendo al danno la beffa dell’accusa. Quando sbagliate, sono sempre io a subirne la colpa. Un reattore nucleare collassa, contaminando l’ambiente circostante? Colpa di Gaia, gli architetti e gli scienziati hanno fatto il meglio che potevano. C’é una frana che distrugge un villaggio e stermina parte della fauna del luogo? Colpa di Gaia, non degli ingegneri urbani che hanno decimato il numero di alberi della zona. É sempre così. Colpa di Gaia di qui, colpa di Gaia di là.”

“Adesso guarda, guarda fuori che bel panorama che c’é.” La guardia continuò a rifugiarsi nel suo silenzio colmo di quel sentimento viscerale che ormai s’era trasformato in terrore, ma sapeva perfettamente, in cuor suo, da cosa era circondato e dove Gaia voleva portare la sua attenzione. I fili lo conducevano, come una marionetta, davanti la scenografia giallastra e letale, davanti le tombe di chi aveva danneggiato Gaia e aveva, apparentemente per mano sua, perso la vita, nell’aria stagnante all’interno delle poche stanze che avrebbero prima o poi ceduto sotto la forza dei venti e della pioggia. “Fuori non si respira e dentro si boccheggia a malapena. E in questa situazione ci siete finiti niente meno che per mano vostra. Divertente, vero? L’uomo, la creatura forte che non riesce neanche a combattere se stesso senza lasciarci la pelle.” Blair si alzò dalla sedia nella quale titubava, iracondo. Per un momento si fece prendere dalla collera, e si avvicinò repentinamente di molto alla ragazza, fino a respirarle sul volto. Voleva farle paura, ma Gaia continuò a parlare, imperterrita, fissando nel vuoto, come se Blair si trovasse ancora seduto sulla sedia. La guardia ne stava avendo abbastanza di sentirsi schiaffeggiato dalla verità, come a secchiate d’acqua gelida.

La voce di Gaia divenne più seria e perse quel tono sarcastico che aveva mandato la guardia su tutte le furie. “Ho ucciso molte persone, e ne sono cosciente, Arthur. Ma quella in cui vivo é ormai una costante lotta per la sopravvivenza. Vi siete spinti troppo oltre, e continuate ad andare avanti e, secondo voi, a togliermi potere. E allora é uno scontro: o io, o voi.” Fece un piccolo cenno con la testa, che fece partire l’ennesima scintilla da uno dei cavi. “E voi non potrete mai essere forti come me se agite da soli contro il mondo. Vi credete padroni del vostro pianeta, quando é il pianeta che é vostro padrone, ed é lui che vi sta punendo adesso. Sta continuando a punirvi da generazioni ormai, da millenni, e voi non ve ne accorgete. Non avete ancora realizzato che siete voi quelli in pericolo, non io.”

Si mise nuovamente a ridere, stavolta di una risata amara. “Anche adesso, anche se non sembra – (ed indicò con gli occhi il macchinario che la sovrastava) -, io sono viva. E continuerò a vivere anche senza di voi. Sono l’unica capace di vivere per sempre. Anche se mi bloccherete il respiro, io ci sarò. E nel caso dovessi morire, rinascerò. Anche nel caso voi non ci siate ad assistere.”

“Del resto io stessa ho fatto il grave errore del permettervi di vivere. Sarebbe l’ora di rimediare.”

Dal corridoio si sentì un suono acuto di vetri infranti. Un masso aveva colpito all’alta velocità del vento il vetro del Centro di sicurezza. L’aria letale del mondo esterno stava entrando.

“Addio, Arthur. É stato bello conoscerti.”

Giovanni Maiorca VCL