Le prime poetesse italiane: un tesoro nascosto

La letteratura italiana inizia a splendere con la scuola siciliana, intorno al 1200, formata da diversi uomini della corte di Federico II di Svevia che si dilettavano a scrivere letteratura (tra tutti i testi religiosi italiani di quell’epoca) prendendo spunto dall’esempio francese, e creando così il tema dell’amor cortese.

Successivamente questo stile si evolse, portando la lirica d’amore al suo massimo splendore in Italia, con gli scrittori del Dolce Stil Novo. Essi vedevano la donna come massima espressione divina, un angelo, una creatura che non si poteva guardare troppo a lungo perché troppo pura. Ma cosa ne pensavano le donne del tempo?

In una qualsiasi antologia scolastica, le donne scrittrici di questo periodo non vengono minimamente accennate. Forse perché non così rivoluzionarie nella scrittura come i loro colleghi uomini, ma in quell’epoca così antiquata, maschilista, non è forse assolutamente rivoluzionaria una donna che sfida le convezioni sociali e inizia a gettare le sue emozioni su carta, rendendole pubbliche?

Le origini della letteratura italiana al femminile

La prima poetessa della letteratura italiana è una signora fiorentina, vissuta nel 1200: Compiuta Donzella. Questo è naturalmente uno pseudonimo, un soprannome: l’uso di un nome d’arte è qui particolarmente significativo, perché ci troviamo comunque in un’epoca in cui nessun poeta riteneva opportuno di doversi celare.

Ciò fa riflettere sulla condizione della poetessa, che per qualche ragione a noi ignota, ma che ha sicuramente a che fare con la situazione femminile dell’epoca, ha deciso di non voler rivelare di essere autrice di questi sonetti. Di lei, infatti, rimangono solo tre aggraziati sonetti di stile sicilianoprovenzaleggiante.

Successivamente, con l’avvento del Dolce Stil Novo, la donna crebbe d’importanza, non tanto come autrice di versi, ma in quanto simbolo di gentilezza e di virtù, sorgente di purificazione spirituale, mezzo per elevarsi fino a Dio.

In questa stessa epoca non mancarono comunque rimatori realistici, che attraverso versi di eredità giullaresca, ignorando il modello della “donna angelicata”, cantarono la donna fatta di carne ed ossa, l’amore fisico e la febbre dei sensi.

Ad ogni modo è da allora che la donna, venerata come angelo o desiderata solo come oggetto di brama sensuale, entra a tutti gli effetti (in qualche modo) nel mondo della poesia. Dobbiamo, però, arrivare alla seconda metà del XIV secolo per trovare una presenza femminile tra gli autori uomini che conosciamo.

Tra gli scrittori a carattere religioso spicca una giovane donna, Caterina da Siena (1347-1380), con le Lettere e Il Dialogo della Divina Provvidenza. Secondo la critica letteraria, però, questi scritti, pur pieni di fervore apostolico e di enfasi mistica, non raggiungono un vero valore letterario, non avendo né il tono distaccato della confessione poetica, né il rigore di un assunto filosofico.

L’enigma delle poetesse di Fabriano

Ma per quanto riguarda la letteratura vera e propria, nel 1300 la presenza femminile in poesia è molto particolare: infatti quasi tutte le più importanti poetesse di questo secolo provengono dallo stesso territorio; le Marche, e la maggior parte sono di Fabriano e delle sue vicinanze.

Ma perché proprio a Fabriano ci fu questo sbocciare di grandi poetesse? Fabriano, libero comune dal 1234, è nel Trecento un centro importante nell’Italia centrale dell’epoca, forte della sua fiorente industria della carta, ma anche lacerato dalle lotte interne tra famiglie guelfe e ghibelline (come ogni comune italiano di quel tempo), come i Chiavelli e i Della Genga: proprio le famiglie cui sarebbero appartenute due delle nostre poetesse.

I Chiavelli in particolare, dopo aver imposto la loro signoria sulla città nel 1378, crearono una vera e propria corte, che può aver favorito la formazione di un circolo poetico tutto al femminile.

Interessante è inoltre il fatto che i Chiavelli siano stati in stretti rapporti proprio con i Della Genga, grazie al castello del feudo di questi ultimi, spesso al centro di patti e concessioni stipulati con la famiglia più potente della città.

Tuttavia solo nella seconda metà del XVI secolo due intellettuali di Fabriano, Giovanni Domenico Scevolini e Andrea Gilio, pubblicano, all’interno delle loro opere di erudizione, alcuni sonetti attribuiti a due donne loro concittadine, entrambe indicate come vissute due secoli prima, al tempo di Petrarca: Ortensia di Guglielmo e Leonora della Genga.

È l’inizio di un vero e proprio giallo della letteratura italiana, con storici e filologi che si accapiglieranno per secoli tra chi considererà autentiche quelle composizioni e chi dei “falsi d’autore”.

Successivamente, l’elenco delle poetesse fabrianesi si arricchirà di altri nomi, come Livia Chiavelli, Giovanna Fiore ed Elisabetta Trebbiani, ma il cuore del problema rimangono loro, Ortensia e Leonora, che anticiperebbero di ben due secoli le “petrarchiste” del Cinquecento.

Il più interessante tra i sonetti attribuiti a Ortensia di Guglielmo, è “Io vorrei pur drizzar queste mie piume”, ed è presentato come indirizzato al grande poeta fiorentino Francesco Petrarca.

«Io vorrei pur drizzar queste mie piume

colà, signor, dove il desio m’invita,

e dopo morte rimanere in vita,

col chiaro di virtute inclito lume.

Ma ‘l volgo inerte che dal rio costume

vinto, ha d’ogni suo ben la via smarrita,

come digna di biasimo ognor m’addita,

ch’ir tenti d’Elicona al sacro fiume,

all’ago, al fuso, più che al lauro o al mirto,

come che qui non sia la gloria mia,

vuol ch’abbia sempre questa mente intesa.

Dimmi tu ormai che per più via dritta via

a Parnaso ten vai, nobile spirito,

dovrò dunque lasciar sì degna impresa?»

 

Infatti esso ha delle assonanze decisamente sospette con il VII sonetto del Canzoniere di Petrarca, conosciuto come «La gola, e il sonno e le oziose piume»

La gola e ‘l somno et l’otïose piume

ànno del mondo ogni vertú sbandita,

ond’è dal corso suo quasi smarrita

nostra natura vinta dal costume;

et è sí spento ogni benigno lume

del ciel, per cui s’informa humana vita,

che per cosa mirabile s’addita

chi vòl far d’Elicona nascer fiume.

Qual vaghezza di lauro, qual di mirto?

Povera et nuda vai philosophia,

dice la turba al vil guadagno intesa.

Pochi compagni avrai per l’altra via:

tanto ti prego piú, gentile spirto,

non lassar la magnanima tua impresa.

 

Non è dunque all’amico Boccaccio che Petrarca avrebbe risposto con il suo sonetto, come si legge ancora oggi nella maggioranza delle edizioni del Canzoniere, ma alla donna Ortensia di Guglielmo da Fabriano, e questo cambierebbe non poco le carte in tavola: l’argomento di discussione infatti così non sarebbe più quello ricorrente nel Petrarca della fatica dell’esercizio della poesia in un mondo ossessionato dal guadagno, ma la fatica dell’esercizio della poesia da parte di una donna in un mondo maschile e maschilista che vorrebbe l’autrice dedita «all’ago e al fuso».

Gli altri tre sonetti a lei attribuiti ci fanno vedere inoltre come, al contrario delle petrarchiste del Cinquecento, Ortensia non si occupi di temi considerati prettamente “femminilicome l’amore, ma si dimostri ben consapevole dei problemi del suo tempo come la “cattività avignonese” (a riprova del fatto che non furono soltanto le grandi sante come Brigida di Svezia e Caterina da Siena le sole donne a interessarsene), cui dedica il lamento «Ecco, Signor, la greggia tua d’intorno».

Questa poetessa inoltre è capace di riprendere in chiave femminile la tematica tipicamente petrarchesca del percorso accidentato per arrivare alla virtù, con il sonetto «Tema, e speranza entro il mio cor fan guerra», o addirittura, attraverso il sonetto «Vorrei talor de l’intelletto mio», di allacciarsi alla grande corrente spiritualista che pervade il Trecento europeo, la quale, anzi, può essere stata innescata proprio dalle donne come reazione al “razionalismo” del secolo precedente.

L’altra grande poetessa di Fabriano, molto affine a Ortensia, fu Eleonora (o Leonora) della Genga, capace anch’essa di mettere in versi una “teologia al femminile”, come mostra il sonetto «Dal suo infinito Amor sospinto Iddio».

D’altra parte sembra proprio che le due poetesse siano legate da una corrispondenza diretta, e che Eleonora guardi a Ortensia come modello e fonte di ispirazione, forse anche in virtù del contatto che quest’ultima ha avuto con il “sommo” Petrarca.

Il sonetto «Di Smeraldi, di perle, e di diamanti» è una chiara celebrazione e una lode senza condizioni di Ortensia. Leonora condivide con Ortensia anche un’altra tematica, quella della rivendicazione del valore delle donne, come mostra questo sonetto dal tono decisamente bellicoso:

Tacete, o maschi, a dir, che la Natura

a far il maschio solamente intenda,

e per formar la femmina non prenda,

se non contra sua voglia alcuna cura.

Qual’ invidia per tal, qual nube oscura

fa, che la mente vostra non comprenda,

com’ella in farle ogni sua forza spenda,

onde la gloria lor la vostra oscura?

Sanno le donne maneggiar le spade,

sanno regger gl’Imperi, e sanno ancora

trovar il cammin dritto in Elicona.

In ogni cosa il valor vostro cade,

uomini, appresso loro. Uomo non fora

mai per torne di man pregio, o corona.

Libro che rievoca le figure delle poetesse marchigiane e i loro prodotti.

Leonora, precedendo altre donne, affronta di petto la misoginia degli intellettuali del suo tempo partendo proprio dalla radice, la teoria aristotelica sulla generazione: essendo solo il seme maschile principio di generazione e l’utero femminile semplice terreno di coltura, il risultato finale perfetto avrebbe dovuto essere a sua volta un maschio (e un maschio possibilmente più perfetto del genitore), mentre la femmina, essendo frutto di un ciclo imperfetto, sarebbe di conseguenza un “maschio mutilo” (mas occasionatus).

Leonora non oppone a tutto questo una tesi contraria, ma sbatte in faccia ai suoi interlocutori gli esempi del suo tempo che sono sotto gli occhi di tutti: guerriere, regine, poetesse.

Lo stesso metodo che usa Boccaccio nel suo “De Claris Mulieribus”. Ma allora queste poetesse di Fabriano sono esistite realmente o sono pura costruzione mentale di arditi scrittori? Pur sapendo che i loro scritti si inseriscono perfettamente in quell’epoca letteraria, non ci è dato conoscere la risposta a questa domanda, che quindi rimarrà un mistero.

Per ora possiamo solo leggere questi scritti, immedesimarci nella mente di queste (presunte) poetesse e, come dovremmo fare per tutti i testi letterari, capirne il significato, per migliorare la nostra, di epoca.

Giulia Grimaldi