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Il processo ai Chicago 7: un film più sul presente che sul passato

Il 2020 non è stato solo l’anno del virus, ma è stato anche un anno di proteste. E non è quindi una coincidenza che proprio lo scorso anno sia uscito (in Italia in sala per un breve periodo, poi su Netflix il 16 ottobre) Il processo ai Chicago 7 (The trial of the Chicago 7), il secondo film alla regia per Aaron Sorkin, molto più noto per le sue eccentriche ed esuberanti sceneggiature (tra le tante, quella di The Social Network di David Fincher, valsagli l’Oscar).

Il Processo ai Chicago 7 è un film sulle proteste, sulla protesta, uno spaccato dell’America di fine anni ’60 che non sembra molto lontana dall’America attuale, un’America fatta di pregiudizi, di conflitti, di contrapposizioni. Il film, infatti, verte sulla contrapposizione tra la sfida tra democratici e repubblicani e la realtà di una sinistra che non è quella rappresentata dal Partito Democratico, ma è la sinistra radicale, la sinistra che scende in piazza, con o senza autorizzazione.

I protagonisti de Il Processo ai Chicago 7 sono sette manifestanti, tra gli organizzatori della protesta di Chicago nel 1968 in occasione della Convention democratica tenutasi nella città, contro la guerra del Vietnam. Come recita il titolo, la storia narra delle vicende successive alla protesta e, in particolare, del processo durato oltre 6 mesi per l’accusa di cospirazione ai sette manifestanti. In realtà, ad essere accusato fu anche Bobby Seale, leader delle Pantere Nere, che non aveva partecipato alla manifestazione né si trovava a Chicago quel giorno, ma fu citato in giudizio semplicemente perché nero, e nel corso del processo fu addirittura torturato, per poi essere assolto per un’evidente insussistenza delle sue accuse.

A difendere i sette manifestanti è l’avvocato William Kunstler (interpretato da Mark Rylance, premio Oscar per Il ponte delle spie), celebre per aver rappresentato, tra gli altri, Martin Luther King, Malcolm X, Jim Morrison e Angela Davis. La procura federale è rappresentata da Tom Foran e Richard Schultz, nominati direttamente dal procuratore generale della presidenza Nixon, John Mitchell. Il processo, come spesso ricordato nel corso del film dal protagonista Abbie Hoffman, membro fondatore del Partito Yippie (interpretato da Sacha Baron Cohen, che molto probabilmente sarà in prima fila per la nomination agli Oscar 2021), “non è un processo penale o civile, ma è un processo politico”. E proprio la politica, tra infiltrati e traditori, farà di tutto affinché i sette manifestanti vengano dichiarati colpevoli di cospirazione.

“The whole world is watching”, “Tutto il mondo ci guarda”, questa è la frase che più viene ripetuta nel film: il processo ai Chicago 7 non è un processo a sette persone, è un processo a tutti i protestanti, non solo della rivolta di Chicago. “Non verremo messi in prigione per quello che abbiamo fatto, andremo in prigione per quello che siamo”, dice Abbie Hoffman, in uno dei punti più forti del film. Più volte, infatti, la difesa si appellerà al primo emendamento, invocando il diritto di manifestare pubblicamente, ma il giudice è ovviamente di parte e rifiuterà ogni obiezione e anche la testimonianza di un teste chiave, l’ex procuratore generale, in carica al momento della protesta, Ramsey Clark, interpretato da Michael Keaton, che, nonostante il poco screen time, regala una delle performance più significative del film.

Il processo ai Chicago 7 è un film d’impatto, che verte sicuramente sull’emozione e l’adrenalina delle proteste, delle urla, dei cori, degli slogan, ma a volte caotico e ridondante, e in questo senso è costruito nella maniera tipica del classico film americano: il sogno americano qui è rappresentato dalla volontà di eliminare la guerra, e non mancano riferimenti alla discriminazione razziale, intrinseca nella società tanto allora quanto oggi. Quindi quel “tutto il mondo ci guarda” non è riferito solo ai Chicago 7, ma al valore che la protesta può avere nello stravolgere convinzioni e stereotipi da sempre presenti negli Stati Uniti e non solo: i parallelismi al movimento Black Lives Matter sono tanti. Il film è costruito nella maniera tipica del classico film americano perché vuole coinvolgere, vuole emozionare, vuole dare speranza e unire il singolo in un collettivo:  “se il (nostro) sangue deve scorrere, che scorra per tutta la città”, che scorra in tutto il mondo.

E nel suo intento ci riesce, attraverso una sceneggiatura incalzante e in costante climax, ricca di dialoghi veloci, con tanti botta e risposta uno dietro l’altro, nel classico stile di Sorkin. Il pregio è la caratterizzazione in modo vivido di ogni personaggio, nonostante il cast molto numeroso, non lasciando, quindi, che essi siano semplicemente parte dell’azione e della trama, ma protagonisti definiti e delineati: dal carismatico e rivoluzionario Abbie Hoffman, al più pacato e riflessivo Tom Hayden (Eddie Redmayne), fino al giudice Julius Hoffman (Frank Langella), che fino alla fine rimane imperterrito nel voler condannare gli imputati e anche gli avvocati della difesa, che ricevono 26 richiami per oltraggio alla corte.

Con la scena finale, Aaron Sorkin racchiude tutto il senso della pellicola in pochi minuti, rimandando a film di culto del cinema statunitense, come L’attimo fuggente. Proprio l’ultima scena mostra come il regista abbia voluto creare un film non perfetto, ma che rimanga impresso, attraverso delle immagini sicuramente evocative, nella mente degli spettatori: anche loro, come tutto il mondo, stanno guardando.

Simone Di Minni