Il tempo, l’elisir, la felicità

Una vecchia scarpa, una vecchia poltrona, una vecchia lampada. Il tempo ci porta ad attribuire inesorabilmente a oggetti di uso comune questo aggettivo, poiché il tempo consuma ogni cosa rendendola priva di funzione o di valore. Tuttavia, per noi uomini è diverso. Il tempo riesce ad intaccarci, ci indebolisce, giorno dopo giorno ci sottrae il vigore, la bellezza, l’energia. Avremmo la stessa sorte di un qualunque oggetto, se non fosse per un piccolo dettaglio: il tempo indebolisce il fisico, ma rafforza la mente.

Questo le società antiche lo sapevano bene. Recita un proverbio africano: “Quando muore un vecchio, brucia una biblioteca”. Nella cultura greca, in epoca omerica, spicca la figura del “kalos geron”, uomo anziano, segnato dal tempo, ma saggio e dignitoso: la debilitazione fisica veniva compensata dalle virtù acquisite. All’epoca dei Romani il termine vecchio era associato al termine saggio; basti pensare che, almeno inizialmente, il fulcro del potere era nelle mani del Senato, termine che deriva da “senex”, ossia anziano. Solo grazie all’esperienza dei vecchi le nuove generazioni riuscivano a ereditare e tramandare tecniche e conoscenze, in ogni ambito. Gli anziani, benché inabili alla battaglia, erano la mente e il cuore della comunità che si affidava ai loro consigli in caso di pericolo imminente.
Già nel Novecento durante le due guerre mondiali, solo chi aveva meno di quarant’anni partiva per il fronte, i restanti non erano considerati parte attiva della società: incapaci in guerra di determinare l’esito di una battaglia iniziarono a rappresentare un peso per la propria nazione.

Le tristi conseguenze derivanti dalla pandemia rendono, oggi più che mai, necessaria e doverosa una riflessione. La parte anziana della società– ne siano testimonianza i tanti e continui dati da cui veniamo bombardati da mesi- ne è diventata il principale bersaglio: già debilitati nel fisico, gli anziani sono diventati facile preda del virus, ma anche della società; a morire sono soprattutto i vecchi, la parte improduttiva della società e dunque la più sacrificabile. È questo il messaggio implicito che serpeggia tra chi si oppone alle decisioni drastiche sul piano economico adottate dal governo.

Sono stati numerosi i lavoratori che, lamentando la chiusura delle attività commerciali, hanno attribuito la responsabilità alla parte debole della società, che tuttora costituisce la maggior parte dei decessi. Lo stesso governatore della Liguria, Giovanni Toti, ha sminuito la rilevanza dei decessi, definendo gli anziani come “persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del paese che vanno però tutelate”. Tuttavia, è proprio per proteggere i nostri nonni che il governo ha dovuto prendere decisioni drastiche, limitando la socialità, gli scambi, la vita di relazione.

La parola vecchio, dunque, ha nel tempo assunto una connotazione dispregiativa tanto che la utilizziamo a fatica, facciamo ricorso a sinonimi per nascondere un certo imbarazzo, come se essere vecchi sia indecoroso. È forse anche per questo che tanti di coloro che superano la soglia dei sessant’anni attraversano una vera e propria crisi di identità con il conseguente rifiuto della vecchiaia che si esprime in numerosi interventi estetici, con esiti talvolta imbarazzanti, volti a colmare le imperfezioni portate dal tempo oppure nell’ostentazione di uno stile di vita giovanilistico, estraneo alla propria età. È il tentativo estremo e nostalgico di catturare il nuovo per tentare di integrarlo nel proprio vissuto in modo da sembrare perennemente giovani. Esiste una terza strada che non sia la rassegnazione o la ricerca della giovinezza perduta? Essere vecchi significa vivere nella tristezza?

Il segreto, forse, risiede nel continuare a coltivare le proprie passioni perseguendo obiettivi che diano significato alla vita. Tutti noi dovremmo valorizzare il ruolo degli anziani, impegnandoci a restituire loro il valore perduto, senza sacrificarli sull’altare del progresso o in nome di un Elisir d’Eterna giovinezza. L’unico elisir che conosciamo è quello della felicità nelle piccole cose, soprattutto in quelle consunte dal tempo. Che siano una scarpa, una poltrona, una lampada o un vecchio.

di Lorenzo Marangione e Emanuele Notturno