“Aulularia”. Recensione di Federico Nicolosi

“Aulularia”, altresì nota come la “commedia della pentola”, è una delle più celebri commedie
plautine composte fra il III ed il II sec. a.C, il cui obiettivo principale è la creazione di un “tipo” -che in questo caso si rivela essere quello del vecchio avaro- facendo ricorso al topos dell’avidità e della lussuria.

La commedia si articola in un prologo e quattro atti; le ultime scene sono andate perdute. La trama L’opera, sfortunatamente pervenutaci priva di conclusione, presenta una trama tanto breve e scorrevole quanto intrecciata e complessa.
La rappresentazione ha inizio con la scoperta da parte di Euclione di una pentola piena di denaro sepolta in giardino da suo nonno: il personaggio provvede così a nasconderla prontamente e a diventarne geloso come di una donna, delineando in modo inequivocabile sin dalle prime battute la figura del vecchio avaro. La scena ruota principalmente attorno a Fedria (la figlia di Euclione), la cui mano è richiesta sia dal giovane innamorato Liconide che dal ricco Megadoro; a fare da contorno alle vicende di questi tre personaggi principali vi è Euclione sempre in agitazione per la sua pentola, che ha provveduto a nascondere nel bosco.
Seguono varie vicissitudini, magistralmente descritte e comicizzate da Plauto, fino alle nozze fra Megadoro e Fedria nella casa di Euclione. Quest’ultima scena, che rappresenta la fine della commedia a noi giunta, vede l’intervento di altri personaggi secondari ed ancora una volta la sospettosità di Euclione, fino all’ultimo sul punto di opporsi al matrimonio ponendo l’“amore” per la sua pentola di fronte all’amore per sua figlia.
Analisi formale e contenutisitca, Aulularia è ambientata nella città di Atene, a conferma del fatto che Plauto attingesse molto dal modello greco con riferimenti al mondo romano. L’ambiente in cui si svolge l’opera è per lo più casalingo: gli unici tre luoghi citati sono la casa di Euclione, ove si svolgono la maggior parte delle vicende, il bosco in cui è nascosta la pentola ed il tempio.
Il linguaggio adoperato rispetta in linea di massima le caratteristiche generali dello stile plautino: un lessico pertanto di facile comprensione e non particolarmente scelto, collocabile all’interno di un registro medio/medio-basso. Rispetto ad altre commedie, nell’Aulularia non sono presenti parti di testo in cui il lessico risulta essere particolarmente scurrile, sebbene non manchino le celebri “tirate” nelle quali un personaggio formula con velocità una serie di parole ingiuriose e non necessariamente coerenti fra loro nei confronti di un altro personaggio con cui è in atto un battibecco.
Il ritmo è, come in ogni opera plautina, medio-veloce nella media e decisamente incalzante in
alcuni momenti particolari, complici le scene volutamente ridicolizzate dal commediografo.
Si può riscontrare una larga presenza di figure retoriche, fra cui ossimori, climax e -leggendo il testo latino- frequenti e talora ridondanti allitterazioni.
La più straordinaria, probabilmente, delle caratteristiche dei componimenti plautini è l’abilità con cui Plauto riuscisse a mettere in scena millenni fa temi di grandissima attualità, rivestendoli di una comicità tagliente. Geniale la scelta da parte del commediografo di ridicolizzare i temi trattati con il solo scopo -come era solito dire- di far ridere il pubblico: tuttavia, i topoi plautini sono spesso tutt’altro che divertenti, se trattati normalmente, ed è lecito che la lettura di questi susciti spunti di riflessione o talora quasi di sconforto nel vedere come l’uomo riesca ancora a commettere gli stessi errori che commetteva più di duemila anni fa. A tal proposito, è possibile tracciare un parallelismo fra Plauto ed il ben più illustre Pirandello che dal commediografo latino sembra prese più di uno spunto. La prima analogia risiede indubbiamente nell’introduzione del metateatro nelle loro opere (di cui Plauto fu inventore e Pirandello maggior esponente), ma una seconda, più sottile, si può riscontrare anche nel modo in cui entrambi affrontano i temi trattati, facendo cioè ricorso ad una comicità -come l’ho definita pocanzi- tagliente e pertanto non fine a sé stessa, bensì capace, dietro il mero atto della risata, di generare riflessione o perfino turbamento; capace di generare quello che Pirandello chiamerebbe “un sorriso amaro”. Va però specificato che siffatto parallelismo ha origine da una più profonda e “sciolta” riflessione circa i temi affrontati nella commedia, dal momento che il primo ed unico fine di Plauto -differentemente da come sarà con Terenzio- era quello di fare ridere gli spettatori senza necessariamente implicare alcuno spunto di riflessione.
Complessivamente, il giudizio medio in seguito alla lettura dell’opera è positivo, in particolar modo per quanto concerne l’ambito contenutistico per i motivi di cui sopra; la forma appare affascinante e coinvolgente, nella misura in cui si tenga logicamente conto del divario temporale che ci separa da Plauto e dunque di come si è evoluta la concezione di comicità nel tempo.

Federico Nicolosi, III I